La sentenza della Cassazione

Se non vuoi bene ai figli i giudici ti danno la multa

Eliana Giusto

  di Giordano Tedoldi Cari papà, sforzatevi di amare i vostri figli, abbracciateli stretti, portateli al cinema, a Natale comprate loro tanti regali e montagne di torroni e bastoncini di zucchero filato, e fatelo soprattutto se siete separati, senza lavoro e non avete la possibilità di pagare l’assegno all’ex moglie, altrimenti rischiate di essere considerati da un giudice anaffettivi e finire condannati in Cassazione per questo.  Come è accaduto a Rosario R., un papà di 55 anni che dal 2000 si è separato dalla moglie Laura e, seppellito l’amore, ha cambiato anche città trasferendosi da Milano a Messina. Rosario e Laura hanno due figli minorenni, Valeria e Fabrizio, e dopo la fine del matrimonio lui non riesce a pagare il sostentamento ai bambini. L’ex moglie gli fa causa e vince il primo e il secondo grado, a Rosario non resta che trincerarsi dietro una disperata difesa in Cassazione: primo, a Messina non si trova lavoro, non ha i mezzi materiali per versare l’assegno; secondo, l’ex moglie gli fa muro ogni volta che tenta di avvicinarsi ai figli.  Quindi che colpa ne ha se, di fatto, non fa il padre?  Nel primo caso, indigenza economica, nel secondo caso, le manovre dell’ex moglie. Niente da fare, ieri la Suprema Corte ha respinto il suo ricorso, confermando la condanna del giudizio d’Appello a sei mesi e 800 euro di multa, più il versamento delle mensilità arretrate per il mantenimento dei figli. La questione dirimente secondo la Cassazione è che Rosario è un papà anaffettivo, colpevole «di non aver coltivato rapporti significativi coi figli», e che l’ostruzionismo della moglie è solo una scusa, in realtà a lui, dei frugoletti, non importa un fico. Egli si è «ben guardato dal fornire la prova di un suo concreto attivarsi per garantire comunque ai figli la presenza della figura paterna, limitandosi ad evocare generiche segnalazioni fatte all’autorità giudiziaria, lettere inviate ai figli e richieste di contattarli attraverso la mediazione dei servizi sociali».  Quanto alla questione economica, anche su quel punto la Cassazione ha le idee chiare: colpa di Rosario che, sapendo di dover versare l’assegno mensile all’ex moglie, ha avuto l’imprudenza di trasferirsi da Milano a Messina, dove c’è notoriamente penuria di offerte di lavoro, e pertanto «le difficoltà di sistemazione lavorativa che l’uomo avrebbe incontrato a seguito del suo trasferimento da Milano a Messina […]non dimostrano lo stato di incolpevole indigenza in cui si sarebbe venuto a trovare».  Il messaggio, a tutti i padri in procinto di separarsi, è chiaro: se proprio volete cambiare città per cambiare vita, sceglietene una con un alto reddito pro capite, il che vi consentirà di trovare sicuramente un lavoro adeguato a pagare il sostentamento dei figli. Ma l’accusa più bruciante che la Cassazione rivolge al padre, oltre a quella di essersi «sottratto unilateralmente ai propri doveri» scendendo in una città economicamente svantaggiata come Messina, è quella di non aver amato i propri figli. Di non aver costruito un rapporto, di non essersi «attivato» per garantire ai figli la presenza di una figura paterna, della quale attivazione avrebbe dovuto esibire in giudizio «la prova». Ma come diavolo si fa a esibire in giudizio la «prova» che non siamo genitori anaffettivi?  Con il certificato di Galimberti o Crepet? Chiamiamo sul banco dei testimoni i figli e li coccoliamo? Forse però presentarsi in tribunale con un motorino tutto infiocchettato, specie se il figlio sta per compiere 14 anni, può essere un bel colpo di teatro, tale da commuovere la Corte rovesciando la sentenza in proprio favore. Del resto è la Cassazione stessa, nella sentenza di condanna, a scrivere nero su bianco che le lettere non bastano e nemmeno rivolgersi ai servizi sociali per una mediazione. E se poi uno è davvero anaffettivo, per tara psicologica, deve comunque beccarsi la condanna?  Se condanna deve essere, allora che lo si obblighi tutti i giorni a fare i compiti scolastici con i figli.