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Carcere, la strage silenziosa dei detenuti: un suicidio in cella a settimana

Giulio Bucchi
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Sono 919 i detenuti che hanno scelto di togliersi la vita in carcere dal gennaio del 2000 ad oggi. Quest' anno si è registrato un aumento dei suicidi nei nostri istituti penitenziari, passati dai 45 del 2016, ai 52 del 2017. Ed era dal 2012, quando i carcerati che si sono uccisi sono stati 60, che non si vedevano dati così elevati. Si tratta di una media di 54 suicidi l' anno, ossia quasi 5 al mese, più di uno alla settimana. Un vero e proprio bollettino di guerra, che fa dell' Italia il Paese europeo in cui è maggiore lo scarto tra i suicidi nella popolazione libera e quelli che avvengono nella popolazione detenuta, con un rapporto da 1,2 a 9,9 ogni 10mila persone, che significa che in galera le morti autoinflitte sono circa 9 volte più frequenti. Dagli anni '60 ad oggi l' indice di suicidi in cella è aumentato del 300%. Da questi numeri emerge l' invivibilità del nostro sistema penitenziario, ormai al collasso soprattutto a causa del fenomeno del sovraffollamento, del cui tasso il Bel Paese detiene il record assoluto in Europa. Un altro primato di cui non andare fieri. Esiste una correlazione tra sovraffollamento, invivibilità del carcere ed alto numero di suicidi. Il primo fenomeno rende insostenibile la vita all' interno di celle sempre più anguste perché sempre più piene. In esse mancano dunque i vitali spazi di movimento, l' intimità, persino l' ossigeno. Spesso per i detenuti uccidersi diventa l' unico modo per liberarsi del fardello di una detenzione che dovrebbe rieducare ma che finisce con l' abbrutire. Il nostro sistema penitenziario imprigiona e non redime, punisce e non riabilita. Eppure in uno Stato democratico gli istituti di pena dovrebbero essere non luoghi in cui si decide di morire, bensì strutture da cui rinascere scegliendo una strada diversa dalla devianza. LE VIOLENZE Nelle 190 prigioni italiane, a fronte di una capienza massima di circa 45 mila persone, sono presenti 58.115 detenuti, quasi 20 mila dei quali sono stranieri, e gli eventi critici tra le sbarre, come atti di autolesionismo, risse, colluttazioni, ferimenti, tentati suicidi, aggressioni ai poliziotti penitenziari, si verificano quotidianamente. «L' aumento dei suicidi è indice del fatto che il sistema penitenziario si sta sgretolando ogni giorno di più a causa soprattutto delle fallimentari scelte del ministero della Giustizia», dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (SAPPE). L' insofferenza aumenta ed esplode in modo tragico, spargendo sangue, persino durante le feste. La vigilia di Natale due detenuti, padre e figlio, sono stati pestati con violenza da alcuni compagni nel reparto di alta sicurezza del carcere salernitano. Nel carcere di Avellino, nella notte del 25 dicembre, è morto nel sonno un giovane detenuto di 24 anni, arrestato poche ore prima per rapina. Si presume che abbia fatto uso di alcol o sostanze stupefacenti prima dell' arresto. L' autopsia chiarirà la vicenda. «La morte in carcere è una sconfitta per tutti e crea malessere anche negli agenti della polizia penitenziaria, sempre in prima linea nel fronteggiare queste drammatiche emergenze», afferma Emilio Fattorello, segretario regionale SAPPE campano. I RECIDIVI A proposito dell' aumento dei suicidi in cella, questi «possono dipendere da diversi fattori, dalla perdita di un congiunto a problemi psichiatrici non curati in modo adeguato. Ecco perché bisogna rafforzare attività di natura sanitaria, psichiatrica e riabilitativa del soggetto detenuto, al fine di accompagnarlo in un percorso di sostegno in grado di attenuare il rischio di un gesto estremo. La responsabilità di tali tragedie è dello Stato, che fallisce perché non garantisce il supporto dovuto anche all' interno dell' esecuzione penale nonché il rispetto dei diritti fondamentali», spiega Agostino Siviglia, Garante dei diritti dei detenuti di Reggio Calabria. Insomma, in galera si muore per diverse ragioni: perché ci si sente falliti, o soli, o inadeguati, per il lacerante senso di colpa, per problematiche pregresse, o persino perché si ha paura di uscire fuori e di non essere accettati. «Anche il sovraffollamento incide sul malessere del detenuto, rendendo la sua condizione disumana, ecco perché bisognerebbe ricorrere alle misure alternative alla detenzione, la cui applicazione in Italia, Paese all' ultimo posto in Europa per l' accesso a tali strumenti, è ostacolata da alcuni automatismi restrittivi dell' ordinamento penitenziario a cui si sta cercando di porre rimedio attraverso i decreti delegati approvati in via preventiva nell' ultimo consiglio dei ministri», continua Siviglia. Non è costruendo istituti, infatti, che risolveremmo la piaga del sovraffollamento. «Più ne crei più detenuti avrai, occorrerebbe piuttosto prevedere il carcere come estrema ratio. Lo confermano studi e statistiche: la repressione carceraria non ha prodotto una diminuzione dei delinquenti e dei reati. È quando funzionano attività trattamentali rieducative che si riducono i detenuti: essi, scontata la pena, non rientrano in cella», mette in luce Siviglia. La recidiva del reato si abbassa del 20% quando funzionano percorsi alternativi; quando questi non funzionano, invece, la possibilità che un ex detenuto torni a delinquere appena uscito dal carcere si alza sopra l' 80%. LE STRUTTURE E poi ci sono le strutture: spesso vecchie, fatiscenti, grigie, troppo fredde in inverno, troppo calde in estate. Veri e propri inferni dove il tempo si cristallizza. «Lo scenario desolante ed opprimente del luogo dentro il quale uno espia la sua pena acuisce il male di vivere. Se mancano le attività, se i congiunti stanno a centinaia di chilometri di distanza, la carcerazione diventa un' agonia. Si può privare un essere umano della libertà, ma non della dignità e del suo ruolo di padre, madre, fratello, figlia», sottolinea il garante. A non essere applicato in Italia è anche il principio della territorialità della pena sancito dall' ordinamento penitenziario, il cui rispetto aiuterebbe il carcerato, quasi sempre sradicato dal suo territorio per esigenze di sicurezza o per i vincoli imposti dal sovraffollamento, a mantenere il contatto con i familiari. «Sostenere il rapporto con la famiglia potrebbe incidere sulla riduzione dei suicidi, salvaguardando la condizione psichica e sentimentale del detenuto. Lontani dagli affetti ci si ammala. Si tratta di una sofferenza inutile, non è qualcosa di educativo», continua Siviglia, che ricorda commosso diversi detenuti che in questi anni, non intravedendo nessuna via d' uscita da un' esistenza priva di prospettive e di scopo, hanno deciso di farla finita. «Mai dimenticherò un bellissimo ragazzo napoletano di 20 anni: aveva problemi di tossicodipendenza e, avendo violato qualche prescrizione, venne trasferito dalla comunità terapeutica in carcere. Dopo pochi giorni si suicidò con il gas. Provo una grande amarezza: quando una vita si spezza è per la mancanza di attenzione nei confronti di quella singola persona. Intorno a noi c' è tanta fragilità, eppure siamo incapaci di vederla», conclude Siviglia. di Noemi Azzurra Barbuto

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