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Cristicchi contestato a teatroper negare l'orrore delle foibe

Va in scena la violenza antifascista. I centri sociali processano «Magazzino 18»che ricorda a teatro la tragedia degli esuli istriani e giuliano-dalmati nel 1947

Matteo Legnani
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Riconciliazione e utopia percorrono strade diverse, anche a teatro. Così «Magazzino 18», pacifica ricostruzione per la scena del dramma degli esuli e della tragedia degli infoibati, torna a scatenare l'odio che il Giorno del Ricordo vorrebbe superare. I gruppi «Firenze antifascista» e «Noi saremo tutto» lanciano l'anatema a Scandicci, tentando di impedirne la rappresentazione al Teatro Aurora. Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, non ha nemmeno accennato a una reazione, forse affaccendato in alchimie elettorali. Ma l'autore e interprete dell'opera, Simone Cristicchi, non si arrende alla censura dei centri sociali e risponde, dal suo profilo Facebook: «Nessuno dei manifestanti ha ritenuto fosse importante assistere in prima persona a ciò che erano venuti a contestare per scoprire se stavano dicendo o no la verità». Eppure, «chi ha visto lo spettacolo sa che c'è un capitolo dove racconto anche dei crimini fascisti. Ma questo non giustifica le foibe, come dite voi. Sono punti di vista». Jan Bernas, il giornalista che ha contribuito con Antonio Calenda a scrivere i testi insieme a Cristicchi, non è sorpreso perché «gli attacchi erano arrivati già quest'estate, quando ancora non avevamo finito di scrivere la sceneggiatura». C'è un po' di delusione nelle sue parole, magari, perché il loro sforzo viene travisato sebbene gli autori siano stati «molto attenti a riportare gli eventi, a essere equilibrati. Ci sono stati crimini da una parte e anche dall'altra. I campi di concentramento di Arbe, ad esempio», ricorda a Libero. Massima prudenza, anche se «gli spettacoli in ambito storico spesso danno per scontati molti aspetti. Ma qui non potevamo. Così abbiamo scelto di far ricorso a un personaggio narratore, l'archivista romano, che guarda. E attraverso di lui, le cose abbandonate iniziano a parlare e a raccontare una storia. E la storia non è mai bianca o nera. Non appartiene a nessuno, ma la verità è di tutti». Lui lo aveva già capito a scuola. «Chiesi alla mia professoressa perché tutte quelle persone scappavano dalla propria terra. Mi rispose che erano “tutti fascisti in fuga”. Da qui la mia curiosità, che mi ha portato in seguito agli incontri con le persone, sia con gli esuli sia con i connazionali rimasti a Istria e a Fiume». E poi alla pubblicazione presso Mursia di Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani. Istriani, fiumani e dalmati: storie di esuli e rimasti, con una prefazione di Walter Veltroni. Un contributo importante per testimoniare che non tutti gli ex comunisti avevano voluto tacere, ma che «Veltroni e Luciano Violante, fra i primi, così come l'onorevole Walter Verini del Pd, hanno riconosciuto la tragedia e anche le responsabilità della sinistra che non era riuscita a fare i conti con la propria storia né a fare il mea culpa, per colpa di un'impostazione ideologica». Nel ricordo del sangue versato da entrambe le parti tuttavia, «bisogna dire che, d'altra parte, questa storia è stata strumentalizzata da destra e da sinistra. C'è chi ne ha fatto una bandiera, e chi non ne ha parlato neppure. E questo ha impedito che emergessero la desolazione e la tristezza patite da quelle popolazioni». Non rinuncia alla riconciliazione, tanto meno in nome della cancellazione del passato. Non è quella la strada da percorrere, secondo Bernas. Al contrario, «nel privato e nella società, l'unico modo è riconoscere le ragioni dell'altro e i torti subiti dall'altro. E ricordare. Il nostro voleva essere anche uno sforzo di educazione alla memoria. Ma se si continua a pensare che tutte le ragioni siano solo da una o dall'altra parte, non si arriva a nulla».  Rimarrà chi accusa, in nome di un mito resistenziale a sua volta strumentalizzato per la costruzione di un'utopia rivoluzionaria. E in nome di quell'ideologia, «tutto quello che per loro intacca le loro verità dogmatiche, dove tutto è bianco o nero, finisce per essere trattato come un'opera revisionistica e degna del peggior trattamento. Il nostro spettacolo è considerato a questa stregua. Se ci accusano di essere revisionisti in questo senso, allora lo siamo». Senza lasciarsi coinvolgere però, precisa Cristicchi, sommerso suo malgrado dalle polemiche sui social network: «Non ho nulla a che fare con gente che si professa di destra e i miei spettacoli precedenti ne sono la prova: da “Li romani in Russia” ai canti dei minatori dell'Amiata. Prendo quindi le distanze da entrambe le fazioni e vi chiedo gentilmente di andare a litigare da qualche altra parte, anche nel rispetto di chi frequenta questa pagina e non è accecato da  alcuna ideologia». Gli rimane appena lo spazio per un appello: «Chiedo solo il rispetto doveroso nei confronti degli esuli, delle loro   famiglie e del dolore di una umanità trafitta dalla Storia». di Andrea Morigi

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