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Gelli, sequestrata Villa Wanda: il teatro dei complotti e dei segreti italiani

Blitz della Finanza nella residenza del Venerabile della P2 ad Arezzo: era il "Santuario" della Prima Repubblica e non solo...
di Giulio Bucchi domenica 13 ottobre 2013

3' di lettura

Attenzione, caduta massoni. È come se la Finanza irrompesse nell’antro della Sibilla, nel tempio di Apollo delfico o nel palazzo misterico della Settimana Enigmistica. Hanno sequestro Villa Wanda, il luogo dell’anima grigia del piduista Licio Gelli: un mausoleo rosato che s’arrampicava sulla collina aretina di Santa Maria delle Grazie, e sull’ultima tranche del secolo italiano. A leggerla in transluce, è la rottura dell’ultimo tabù della Prima Repubblica. Il sequestro era già nell’aria nel 2006, anche allora per accumulo di debiti: Gelli doveva allo Stato 1,5 milioni di euro. Ma l’ex venerabile, ufficialmente dedito alla poesia, a quel tempo era ancora potente; e la vendita all’incanto della sua residenza sfumò; nessun acquirente si palesò, come se in quelle trentatré stanze su tre piani, con piscina e serra, immerso in un parco di tre ettari aleggiassero gli spettri d’uno sgradevole passato. Probabilmente Villa Carla (acquisita dai Lebole, ribattezzata così in onore della consorte di Gelli, Wanda Vannacci) i suoi fantasmi li aveva davvero. La villa salì agli onori delle cronache italiane il 17 ottobre del 1981, quando al suo interno vennero trovate le famose liste degli affiliati, appunto, alla loggia massonica P2. Gelli, ultranovantenne, avrebbe dovuto essere un reperto del passato. Ma, curiosamente, tutti i vicini notavano ancora un flusso di auto blu, blindate, dai vetri fumè che procedevamo tra gli ulivi verso stanze che avrebbero divuto esser sgombre di segreti. Oggi Secondo il procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, Licio Gelli e la sua famiglia, avrebbero architettato un sistema per frodare il fisco con il tentativo di una vendita fittizia di villa Wanda per evitarne il pignoramento da parte di Equitalia. Secondo le indagini della Finanza, tutto sarebbe iniziato nel 1988 quando l’agenzia delle entrate venne in possesso del testamento olografo dello stesso Gelli (recuperato dalla polizia francese) che attestava notevolissime disponibilità patrimoniali in territorio estero e alcuni documenti che dimostravano spese elevatissime per il sostentamento dei tre figli, Raffaello, Maria Rosa e Maurizio, cifre notevolmente superiori ai redditi dichiarati. E si parla di omessi pagamenti per circa 20 milioni di euro, di una partita di giro successoria e dello spostamento dell’asse patrimoniale del Maestro su una società-scatola cinese costruita ad hoc. Ad hoc per frodare il fisco, che di questi tempi è pericolosissimo. La triste conclusione è che l’ex capo della P2 è ora indagato insieme alla moglie Gabriella Vasile, ai tre figli Maurizio, Maria Rosa e Raffaello e un nipote, Alessandro Marsilli.  Ora, la residenza dei passi perduti gelliani da sempre suscita un inevitabile, quasi malata, attrazione. Chiunque fosse transitato anche solo una volta da quella villa -come chi scrive-rimaneva  impressionato dalla calma che vi albergava e da alcune finestre che ridevano dalla facciata. Il primo sguardo dell’ospite cercava di farsi largo tra il mobilio antico, i quadri e le porte socchiuse; dove per oltre trent’anni s’erano mossi i più potenti personaggi dell’economia e della politica italiana. In quelle stanza si decise il destino di una delle più grandi case editrici italiane; si promossero ministri e sottosegretari; si trattavano dossier riservati, ricatti incrociati, carriere sponsorizzate, morti di papi e banchieri; si stabilì, perfino, la rielezione di Perón grazie alla massoneria argentina, assieme alla traslazione segreta della salma di Evita al Monumentale di Milano. Quella villa pare fosse sotto osservazione del Mossad, dato lo strano inserimento di Gelli tra i sorvegliati speciali dal gruppo Wiesenthal, quello dei cacciatori di nazisti. Presumibilmente fu anche in una delle stanze dello stesso edificio (o, mi piace immaginare, in uno stanzino segreto...) che Gelli allestiva i suoi travestimenti alla Arsenio Lupin: i finti baffoni neri e impomatati, il parrucchino, il barbone canuto con cui si fingeva un cantastorie con tanto di scimmietta e d’organetto. Questo il passante osservava, dal di fuori. Il secondo sguardo, invece, andava alle fioriere da dove, anni prima i carabinieri avevano estratto 160 chili di lingotti d’oro, una bizzarra forma d’arredo. Licio Gelli, da quelle sale diceva, intervistato da Concita De Gregorio su Repubblica: «Ho una vecchiaia serena. Tutte le mattine parlo con le voci della mia coscienza, ed è un dialogo che mi quieta. Guardo il Paese e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la tv, l’ordine pubblico. Ho scritto tutto trent’anni fa». Si sentiva l’eco spettrale della Prima Repubblica. Si avvertiva l’odore stagnante del potere, anche con le finestre aperte... di Francesco Specchia  

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