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Il museo della guerra fa paura solo in Italia: ostracismo e incrostazioni ideologiche

Marco Patricelli
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Chi ha paura di un Museo della guerra? Solo in Italia spaventa l’idea di un grande contenitore culturale che racconti il passato. Le stagioni della storia italiana sono invece parcellizzate, seguendo di volta in volta le localizzazioni geografiche, la tematicità di argomento e l’indirizzo specialistico. Un conto è però la battaglia di Canne, da conoscere sul luogo e tra le vestigia della romanità, anche per atmosfera, un conto è l’epoca contemporanea di cui manca una narrazione di ampio respiro, depurata di scorie ideologiche, di imbellettamenti e di censure che non hanno più senso in un disegno di accettazione serena della storia con le sue luci e le sue ombre. Se invece si accenna appena ai militaria, solitamente, scattano anticorpi fuori dal tempo e dalla ragione, soprattutto se declinati all’epoca della seconda guerra mondiale. All’estero non è così, anche in Paesi che hanno sofferto come e più dell’Italia, che si sono però riappropriati della storia conoscendola e non facendola a pezzettini dopo averla passata al setaccio, e soprattutto non respingendo le pagine più imbarazzanti e vergognose, che vanno accettate perché si sono verificate. Vale anche in Paesi che, quanto a storia, ne hanno molta di meno e molto più lineare dell’Italia.

Basti pensare al Musée de l’Armée et de l’historie militaire di Bruxelles, che racconta dieci secoli del Belgio. La piccola Repubblica Ceca è un esempio, col recupero progressivo di centinaia e centinaia di bunker delle difese lungo i Sudeti (la Maginot cecoslovacca), messi a sistema e tali da richiamare migliaia di appassionati e turisti per caso sugli itinerari della storia lungo gli itinerari paesaggistici, con ovvia ricaduta economica, non solo culturale. Da noi il tema è urticante, osteggiato, imbarazzante, scansato. La storia è fatta di battaglie e di guerre, che vanno raccontate con un filo conduttore che leghi epoche, personaggi e fatti. Se ci limitiamo al rapporto tra eventi e luoghi, a esempio, paradossalmente tutto il centro-sud è completamente tagliato fuori dalla narrazione della prima guerra mondiale, testimoniata solo dal monumento o della lapide ai caduti in ogni paese e dai cimiteri militari dove però non ci sono i resti dei soldati che sono invece nel grande sacrario di Redipuglia. Non ci fu fronte, non c’è nulla da vedere e non ci sono reperti. Il Museo della guerra, quindi, non può essere sbrigativamente spacciato per un cedimento al fascino del bellicismo, né accusato di essere una sorta di modello esaltante della guerra proprio perché certi musei, secondo gli esempi che arrivano d’oltralpe, sono invece l’esatto contrario, mostrandone gli orrori e andando oltre le lezioni a scuola dei docenti e le letture dei libri spesso sostituite da una rapida ricerca sul web col “professor Google”.

 

 

 

L’ostracismo di chi non sa liberarsi delle incrostazioni ideologiche solo in Italia è arrivato a guardare con sospetto persino i reenactors, ovvero gli appassionati che rappresentano la storia e fanno le comparse per film e fiction solo dopo un lungo e meticoloso lavoro di ricostruzione su uniformi, armi, equipaggiamenti, stemmi, insegne, mezzi d’epoca. Esistono fortunatamente associazioni che si reggono sull’entusiasmo degli aderenti che vanno ancora a caccia di residuati bellici sui terreni che furono campo di battaglia, capaci di esultare per il rinvenimento di un bossolo come di una pistola sottratta alla ruggine e all’oblio del tempo. E conoscono purtroppo le difficoltà incontrate per mettere in mostra i loro tesori, quando si confrontano con le amministrazioni pubbliche, spesso a seconda dell’orientamento e quasi sempre per timore di polemiche. Dove non c’è tradizione specifica occorre dunque crearla su solide basi scientifiche e su un’altrettanto solida volontà di dare vita a una struttura che sia capace di descrivere in maniera organica e di appassionare.

 

 

 

Il sistema museale italiano, d’altronde, salvo poche lodevoli eccezioni, va svecchiato proprio nel concetto, nelle mentalità, nelle formule e nelle capacità di attrazione. Perché un museo è vivo quando invita a essere visto e non è luogo fisico meta finale di deportazione delle scolaresche che gonfiano artatamente il numero dei visitatori. Abbiamo una grande storia da raccontare e non si può pensare in piccolo. Con apertura mentale, senza demagogia di partito, senza veti e censure che appartengono all’epoca in cui - fortunatamente non Italia - nelle scatole di montaggio di modellini di plastica di aerei tedeschi del secondo conflitto mondiale le decals venivano fornite senza le svastiche sul timone di coda. A Pescara, città unificata nel 1927, la sala dei marmi del Palazzo della Provincia in stile razionalista prevedeva all’ingresso quattro nicchie per le statue che simboleggiavano le quattro età dell’Italia nella visione di allora: il legionario romano, il capitano medievale, il bersagliere della prima guerra mondiale, e la coeva camicia nera. I primi tre sono ancora lì, la quarta figura è scomparsa nel dopoguerra, forse in qualche cantina, forse distrutta. Il che era giustificabile all’epoca, ma oggi mutila la narrazione storica. Una nicchia vuota è un vuoto nella memoria che non giova a nessuno. 

 

 

 

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