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Bari, il baby killer evaso dal carcere che sta sfidando le istituzioni

di Simone Di Meo sabato 19 luglio 2025

3' di lettura

Un mese e mezzo fa, il 17enne P. I. è evaso dal carcere minorile di Bari calandosi con delle lenzuola dalla cella, come nei film. Da allora è sparito nel nulla. O meglio: è sparito fisicamente, ma continua ad apparire sui social. Video, immagini, frasi, simboli, minacce scambiate con altri baby boss. Tutti pubblicati da profili anonimi ma inequivocabili. Il linguaggio è quello della camorra di nuova generazione: pistole, sigle, inni alla malavita e a Cosa Nostra. E, soprattutto, una costante sfida allo Stato.

Il nome di P. I. era già noto alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli. Non solo perché si era reso responsabile di una sparatoria in strada insieme ad altri coetanei affiliati ai clan, per la quale era stato condannato a quattro anni. Ma soprattutto perché, nel dicembre scorso, era arrivata la condanna a quindici anni di reclusione per l’omicidio di Gennaro Ramondino, ventenne del quartiere Pianura, suo amico d’infanzia. Un delitto maturato all’interno di un contesto criminale strutturato, dietro ordine di un boss di zona, che riteneva Ramondino responsabile di un ammanco alla cassa del clan. Una punizione esemplare, eseguita con freddezza: il giovanissimo sicario diede appuntamento alla vittima in uno scantinato, la affrontò senza dire una parola e le sparò a bruciapelo.

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In tasca, Ramondino aveva diverse banconote da cento euro, frutto dello spaccio. Erano zuppe di sangue e furono gettate in un tombino. Il corpo fu ritrovato carbonizzato nelle campagne intorno a Pianura. Qualcuno aveva voluto non solo cancellare le tracce del cadavere, ma addirittura polverizzarne la memoria.
L’arresto del minore avvenne qualche settimana dopo il ritrovamento del cadavere. Durante l’interrogatorio, cercò di alleggerire la propria posizione indicando come istigatore un collaboratore di giustizia, Domenico D. N. , che a suo dire gli avrebbe garantito l’impunità: «Mi disse che essendo minorenne non sarei stato arrestato». Invece la condanna arrivò, puntuale.

Poi, l’evasione. Nella notte della finale di Champions League, mentre l’attenzione generale era distratta dal calcio e il personale penitenziario probabilmente ridotto al minimo, P. I. ha bucato il muro della sua stanza. Una volta aperta la via di fuga, si è calato con una corda fatta di lenzuola annodate. All’esterno, ad attenderlo, c’era un’automobile. Secondo gli inquirenti, si sarebbe nascosto nel territorio dell’area flegrea, tra Napoli e i comuni limitrofi, dove vivono ancora diversi suoi referenti. Da quel momento, il baby killer non ha mai davvero smesso di esporsi.

Ma lo ha fatto a modo suo, utilizzando il social amato dai ragazzini, TikTok, come palcoscenico e campo di battaglia. I profili utilizzati sono anonimi ma riconducibili al suo ambiente e alla sua storia. I video mostrano gesti di sfida, frasi provocatorie, riferimenti diretti alla cultura mafiosa. Alcuni inneggiano apertamente alla mafia e alle cosche partenopee. Altri celebrano la figura del sicario come modello di forza e rispetto. I messaggi non sono solo autoreferenziali: puntano a costruire consenso, imitazione, legittimazione. Sono immagini che parlano a un pubblico preciso, quello dei giovanissimi che vivono in contesti di fragilità educativa, dove l’unica autorità riconosciuta è quella criminale.

La fuga di P. I. non è soltanto un caso di cronaca nera su cui indaga la Squadra mobile di Napoli. È il simbolo di una dinamica più ampia, che riguarda l’emergenza educativa e sociale di alcuni territori, la capacità attrattiva della criminalità minorile, la diffusione di un linguaggio cruento e spettacolarizzato attraverso le piattaforme digitali. A colpire non è soltanto la violenza dei gesti, ma l’intelligenza comunicativa con cui vengono diffusi. I video non sono improvvisati: seguono uno stile, una narrazione, una strategia. Non c’è solo istinto, ma un preciso uso delle regole dell’algoritmo e del consenso online.

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Le forze dell’ordine continuano a cercarlo. Le indagini si muovono in due direzioni: il territorio napoletano, dove potrebbe ricevere protezione, e il web, dove i tecnici provano a risalire agli indirizzi IP usati per i post. L’obiettivo è fermarlo prima che si trasformi in un nuovo simbolo. Perché, in fondo, questa è la vera posta in gioco. La costruzione di una figura che, pur latitante, continua a imporsi come esempio, riferimento, figura di potere. E lo fa scegliendo strumenti moderni, ma obiettivi antichi: esercitare dominio, farsi temere, mostrarsi invincibile. Ad appena 17 anni.

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