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Pansa: "In piazza le dichiarazioni"

"Mi piacerebbe vedere in pubblico se sono davvero pulite le mutande di chi frega anche me"

Andrea Tempestini
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Diverse voci si rincorrono sulla manovra. Sono i giorni più caldi, e si lavora alle ultime modifiche al testo. Tra le varie ipotesi quella di rendere pubbliche le dichiarazioni dei redditi di tutti i contribuenti. Il compito, finalizzato a combattere l'evasione, sarebbe a carico dei Comuni, che potrebbero trarre beneficio dall'imponibile recuperato. Giampaolo Pansa, su Libero di domenica 14 agosto, aveva già proposto la misura. Vi riproponiamo l'articolo. Che cos'è un mantra? Nell'induismo è una formula spirituale che, ripetuta di continuo, prima o poi produce un effetto. A secco di idee, la sinistra italiana ha scovato il suo mantra a proposito delle tasse e non si stanca di recitarlo. Il merito è del segretario del Partito democratico, Pier Luigi Bersani che, giovedì alla Camera, non ha fatto altro che dire: «Chi ha di più deve pagare di più», «Chi non ha mai dato adesso deve dare». Gli va dietro Susanna Canusso, leader della Cgil.  E insieme a lei molti dirigenti del Pd, come Matteo Orfini che sulla 7 ci ha offerto sempre lo stesso bla bla: «Deve pagare chi non ha ancora pagato». Questo mantra diventerà la colonna sonora della nuova tassa decisa dal governo Berlusconi: roba di centrodestra, ma che piacerà molto ai compagnucci di tutte le sinistre. È il “Contributo di solidarietà”, il prelievo extra del 5-10 per cento sui redditi che superano i 90 mila euro all'anno. Può essere l'inizio di una caccia al ricco o presunto tale, messa in moto da un esecutivo che da sempre ci aveva riempito le orecchie con la promessa di abbassare le tasse. Un tradimento, come ha scritto subito Libero? Certo, un tradimento. E, prima ancora, un grande errore a danno dei contribuenti onesti e un grande regalo agli evasori fiscali. Da noi gli evasori sono un vero esercito. Li conosciamo tutti. Ne fanno parte i ristoratori che ti applicano uno sconto se non chiedi la ricevuta fiscale. Gli artigiani che si fanno pagare in nero dicendoti che in questo modo risparmierai l'Iva. Il barista che non ti consegna mai lo scontrino del caffè. Dei commercianti meglio non parlare. E così della vergogna degli affitti in nero. Ma tutti insieme questi soggetti rappresentano soltanto la punta dell'iceberg. L'evasione più massiccia è quella nascosta, armata di mille espedienti pur di non farsi scoprire e continuare a farla franca.   C'è da sperare che la benemerita Agenzia delle entrate non attenui la ricerca dei ladroni. Deve farlo più che mai oggi, quando emerge una realtà prima d'ora mai vista con la necessaria chiarezza. Sotto il profilo fiscale l'Italia appare un paese diviso in due. Da una parte, i papponi che campano alla grande sulle tasse pagate dai contribuenti onesti. Dall'altra, questi cirenei che hanno fatto ricordare a Fausto Carioti, su Libero, un sacrosanto giudizio di Giuseppe Prezzolini: “L'Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano e crepano”. La sinistra ha sempre giudicato il grande Prezzolini  un autore di destra. Ma adesso anche sul versante rosso qualcuno comincia a ragionare come lui. Lo intuisco da sintomi che la dicono lunga. Sul Fatto quotidiano, giovedì 11 agosto è comparsa una lettera, firmata Roberto Sicilia, che diceva: “Ridurre tutto a una guerra tra ricchi e poveri non centra il cuore del problema. È tempo che paghi chi non ha mai pagato o ha pagato molto poco”. Ancora più interessante è la risposta che Michele Serra, un guru della sinistra, proprio l'altro ieri ha dato a un lettore del “Venerdì” di Repubblica: “Nell'Italia degli ultimi anni, la vera lotta di classe è quella che contrappone chi paga le tasse a chi non le paga... Mi accorgo che persone che dichiarano un quarto o un decimo del mio reddito hanno un tenore di vita nettamente superiore al mio. E soprattutto, questo è il vero scandalo, godono di agevolazioni dalle quali io sono (giustamente) escluso, e dunque rubano due volte: evadendo il fisco e godendo di un welfare al quale non avrebbero diritto”.  Non so come verrà accolta la nuova tassa di solidarietà. Se penso alle conseguenze politiche, credo che il governo Berlusconi abbia firmato il proprio certificato di morte. Non pochi dei suoi elettori si troveranno nella tagliola del 5 o del 10 per cento in più da pagare come obolo per il salvataggio dell'Italia da un crac che nessuno si augura. Un obolo che per il momento non si conosce se verrà gestito e speso senza i soliti sprechi. Pare che la tassa riguardi non più di 400 mila contribuenti, quelli che dichiarano almeno 90 mila euro l'anno. È un numero limitato e nessuno ci ha ancora detto quale sarà il gettito della Taso (Tassa di solidarietà). Ma l'effetto paura, o malumore incavolato, sarà molto più ampio. Pure chi oggi denuncia di meno penserà: prima o poi toccherà anche a me di essere torchiato. E saranno tanti quelli che si sentiranno vittime di una feroce ingiustizia. Mi trovo anch'io su questa barca di poveri fessi, per citare Prezzolini. Non potrò fare a meno di pagare la Taso dopo aver già pagato tutte le altre tasse. E pure il mio sarà un conto molto salato. Ma nessuno, di destra, di sinistra o di centro che sia, mi venga a parlare di caccia al ricco. Perché a quel punto mi incazzerei anch'io. E userei parole meno fredde di quelle usate venerdì sul Sole 24 Ore dal  bravo Fabrizio Forquet: “È un provvedimento discutibile perché in realtà si applica a chi dichiara di più al fisco e non a chi ha davvero di più… Chi già paga in tasse una quota rilevante del proprio reddito ne pagherà ancora di più. Chi evade resterà felicemente esente dal prestare la propria ‘solidarietà'”.  Non c'è compenso per chi verrà colpito da questa canagliata. Ma forse uno, minimo e soltanto di facciata, potrebbe esserci. È quello di mettere in piazza tutti i redditi dichiarati dai contribuenti italiani. Come fece nell'aprile 2008 il secondo governo Prodi, poco prima di gettare la spugna, travolto dalle risse interne al centro-sinistra. Vincenzo Visco, responsabile delle Finanze, pubblicò sul sito dell'Agenzia delle Entrate le dichiarazioni presentate nel 2006 e relative ai redditi del 2005, provincia per provincia. Il 30 aprile 2008 intervenne il Garante per la Privacy e l'agenzia fu costretta a cancellare dal proprio sito quegli elenchi. Ma nel frattempo, molti navigatori su Internet avevano già provveduto ad acquisire i file che così finirono ai giornali, pronti a pubblicarli. Tutto proseguì sino al 7 maggio, poi arrivò un nuovo veto. Però quei pochi giorni bastarono per far capire quali erano i contribuenti fedeli e quali no.  Perché mai la pubblicità dei redditi dichiarati dovrebbe essere considerata inopportuna? Qualche decennio fa esisteva l'imposta di famiglia, una tassa comunale. Anno dopo anno, gli elenchi venivano resi noti dai comuni, sia pure per pochi giorni. Ma diventavano un indicatore preciso della fedeltà fiscale dei residenti. Messo sotto gli occhi dei concittadini o dei compaesani. In proposito ho un ricordo personale. Nel 1964 andai a lavorare al Giorno, diretto da Italo Pietra. La mia mansione era di inviato per l'edizione lombarda. Pietra, un grande giornalista che sapeva bene com'era fatta l'Italia, aveva un chiodo fisso: stampare sul Giorno gli elenchi dell'imposta di famiglia. Mi spedì a cercarli in più di un capoluogo, dicendomi: «Fai di tutto pur di averli». Non si rivelò un affare semplice. I sindaci non avevano nessuna intenzione di sganciare a un giornalista i nomi dei contribuenti più in vista. Mi trovai costretto a ricorrere a metodi e a sotterfugi che preferisco non rammentare. Ma insieme ad altri colleghi del Giorno molti di quegli elenchi li trovai. E Pietra li pubblicò. Per un contribuente onesto e tartassato potrebbe essere una consolazione da poco sapere come si comportano certi big dell'evasione fiscale. Tuttavia, se è vero che viviamo nell'epoca della politica spettacolo, mi piacerebbe vedere in pubblico se sono davvero pulite le mutande di chi frega anche me. di Giampaolo Pansa

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