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Olivetti & Co, quei soldi per la ricerca buttati

La cronistoria degli sprechi confindustriali, dagli albori fino al sogno chiamato e-commerce

Andrea Tempestini
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Quante volte ci siamo sentiti ripetere la stessa reprimenda dai vertici confindustriali: “l'Italia (sta per lo Stato) deve investire di più in ricerca e sviluppo. È lì che si crea il futuro e noi siamo indietro (spendiamo circa l'1% del Pil e dovremmo arrivare al 3) rispetto ai nostri competitor”. Tante. E anche giustamente, perché i numeri parlano chiaro e fanno riferimento a una tendenza del Paese che si è stratificata negli anni. Il problema, però, è che pure quei fondi pubblici (per la verità non pochissimi) che sono stati somministrati, per esempio, alle aziende dell'hi-tech quasi mai hanno portato ricerca e sviluppo per il Paese. Anzi. Al tema, Marco Cobianchi, nel suo libro “Mani Bucate”, dedica un intero capitolo. Parla di Olivetti e di StmMicroelectronics, ma anche delle varie leggi e leggine, per incentivare ad esempio la banda larga e l'e-commerce, che descrivono l'ennesima pagina nera dello sperpero del denaro di Stato all'italiana. Care stampanti - L'Olivetti, tanto per parlare di un'azienda che ha fatto la storia dell'Italia, ci costava di meno quando era un colosso. Il lento declino, iniziato con la morte di patron Adriano nel 1964 è stato inversamente proporzionale alle richieste di quattrini pubblici. E così sono arrivati tre miliardi di lire nel 2001 (per un progetto di ricerca nel settore), più altri 3,4 milioni di euro dalla Valle d'Aosta per una controllata, la Olivetti I-Jey, fino allo stanziamento a pioggia di finanziamenti per chi acquistava pezzi della stessa Olivetti. Sì, funzionava proprio così. Lo Stato ti pagava se prendevi una parte “dello spezzatino delle stampanti”. Morale della favola: fioccano le aziende disposte ad acquistare e poi rivendere la Olivetti di turno, con  i casi limite dello stabilimento di Marcianise vicino a Napoli che passerà di mano per 37 volte in cinque anni. E la chiamano ricerca e sviluppo. Anche perché a questo gioco estremo non fanno eccezione le big del settore. Anzi la superbig: StmMicroelectronics, una joint venture nata nel 1987 tra l'italiana Sgs e la francese Thomson. Fa semiconduttori ed ha rappresentato per anni la dimostrazione che pure al Sud (in Sicilia) era possibile produrre alta tecnologia. E lo Stato ci ha puntato forte, tanto da elargire nel 2005 un finanziamento (e non è l'unico) da 446,25 milioni per la creazione di un stabilimento, “M6”, che una volta tirato su è rimasto in stato di abbandono. La Visco Sud - E cosa dire delle leggi ad hoc che poi si trasformano in contributi a pioggia? L'esempio più eclatante risale al 2000 e alla cosiddetta “Visco Sud”, la legge 388, che prevedeva agevolazioni per le imprese che si volevano fare il sito internet. Vi accedono (o provano ad accedervi) tutti. Dal Conad al Pam, dalla Pirelli alla Marcegaglia, dalla Scavolini alla Carrozzeria Bertone fino al fruttivendolo vicino casa. Troppi. E, infatti, molti non avrebbero i requisiti ma riescono a intrufolarsi grazie agli aiuti di funzionari (dello Stato e della banca, il Mediocredito Centrale, che gestiva i bandi) compiacenti. La magistratura apre un'inchiesta e tutto finisce all'italiana. Nel 2009 il ministro sospende i pagamenti con un tristissimo bilancio. “Su quattro bandi – si legge nel libro – le erogazioni relative al primo bando non sono state completate, uno è sospeso sine die, due sono finiti in procura e per tutti mancano i soldi”. di Tobia De Stefano

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