Ora lo dice anche un giudice: in Rai c'è la lottizzazione

Lucia Esposito

Avevamo ragione noi di Libero: la Rai è lottizzata. Talmente lottizzata che l’ormai noto tabellone con i nomi dei dirigenti dell’azienda colorati a seconda della presunta appartenenza politica, pubblicato dal nostro giornale il 7 febbraio del 2008, non è affatto un falso storico, ma una fotografia dello stato dell’arte. Di allora per quanto riguarda i nomi contenuti, di sempre per ciò che attiene alle percentuali. Perché, come diceva Ettore Bernabei, storico direttore generale della tv pubblica, «in  Rai i colori devono esserci tutti». E in quel tabellone c’erano eccome. E ci sono ancora oggi. A stabilirlo è stato il giudice monocratico della settima sezione penale del Tribunale di Milano, Aurelio Barazzetta, che ha assolto i giornalisti  Oscar Giannino - allora direttore dell’inserto economico Libero Mercato - il redattore Enrico Paoli e l’allora direttore del quotidiano fondato da Vittorio Feltri,  Alessandro Sallusti. Secondo il magistrato milanese quanto pubblicato da Libero «non costituisce reato» di diffamazione. Non è dunque offensivo dire che la Rai è lottizzata? Stando al dispositivo della sentenza sembra proprio di sì. In attesa delle motivazioni, che saranno rese note fra  una quindicina di giorni, si può ipotizzare che  il giudice abbia accolto le tesi sostenute dai difensori di Paoli e Giannino, l’avvocato Carlo Melzi e il collega Francesco Bomba, secondo i quali quanto scritto su Libero il 7 febbraio del 2008 altro non era che «un pezzo di critica politica» che «prendeva le mosse» dalla tabella. Vera? Falsa? I giornalisti, in particolare Paoli, difeso dall’avvocato Bomba, hanno tutelato la fonte, non rivelando chi ha consegnato a Libero il grafico, tantomeno chi ne ha confermato la veridicità. Ma per la difesa (e forse il Tribunale), a provare che la tabella era davvero stata utilizzata per decisioni in Rai, c’è il fatto che profetizzasse persino incarichi dirigenziali formalizzati soltanto in seguito. Una tabella la cui rilevanza, dunque, non stava «nel descrivere le vere o sbagliate appartenenze politiche dei dirigenti», ma nel «rivelare ciò che di loro pensava chi aveva redatto il documento» in Rai, come hanno sostenuto gli avvocati difensori. Il tabellone, o diagramma della lottizzazione secondo la formula scelta dal Tribunale di Milano, circolava da tempo ai piani alti della Rai, con i nomi dei dirigenti abbinati a colori della loro presunta appartenenza politica. Rosso per il centrosinistra, blu per il centrodestra, verdi per i tecnici. Libero ne venne in possesso grazie ad un anonimo postino che recapitò il documento in redazione. Una volta fatte le debite verifiche, rivelatesi fondate, ne fu decisa la pubblicazione. A corredo del grafico, rigorosamente a colori, c’era un articolo nel quale veniva sottolineata  la provenienza del documento, sostenendo che quello  era «il Cencelli di viale Mazzini». A completare l’opera  un commento di Giannino.  Il 7 febbraio del 2008 questa era la pagina del quotidiano Libero. Una pagina che aveva fatto andare su tutte le furie sia il presidente e direttore generale della Rai di allora, Claudio Petruccioli e Claudio Cappon, che negarono subito  l’autenticità «made in Rai» dello schema. Anche alcuni dirigenti Rai indicati nella tabella ebbero la stessa reazione,  avendo visto la «propria professionalità» lesa da etichettature politiche. In attesa delle motivazioni della sentenza, che potrebbero aprire la strada ad una vera e propria riscrittura del concetto di lottizzazione,  va sottolineato che la Rai ha speso qualcosa come 200 mila euro, e si tratta di una stima al ribasso, per accusare Libero di diffamazione. Solo una parte del lavoro, infatti, è stato fatto dall’ufficio legale della Rai, mentre il grosso dell’impianto accusatorio, costruito a sostegno delle tesi del pubblico ministero, è stato assemblato da uno studio esterno all’azienda di viale Mazzini. Che ora dovrà rivedere anche i propri piani in sede civile, avendo deciso, allora, di sostenere le cause intentate al nostro giornale dai dirigenti che si erano sentiti lesi nella loro professionalità dal tabellone. Soldi che i contribuenti hanno versato  con il canone per vedere i programmi, non per pagare le cause della Rai. di Paolo Rossi