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La parola chiave: spacchettamento

Il giurista Zeno-Zencovich: "Bisogna liberalizzare la Rai, ai privati alcuni temi. E Miss Italia non è servizio pubblico"

Giulio Bucchi
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La cura per il servizio pubblico radiotelevisivo esiste e si chiama spacchettamento. Peccato che per somministrarla sia necessaria la volontà politica e che quest'ultima, solo a sentirla nominare, evapori seduta stante. «Liberalizzare è una bella parola», afferma il giurista, professore ed esperto di diritto della comunicazione e dei media Vincenzo Zeno-Zencovich, «ma quando poi non la si mette in atto uno si chiede se ci sia chi ha interesse a lasciare le cose come stanno». Professore, questo è il caso della Rai? «Be', la Rai fa comodo a tutti, e tutti hanno piacere che la Rai resti in qualche modo sotto l'egida pubblica». Il che non pare la soluzione migliore... «Bisognerebbe ridurre progressivamente gli aiuti di Stato all'emittenza pubblica e, di conseguenza, il prelievo dalle tasche degli italiani: mantenere la qualità riducendo i costi». Come? «La parola chiave è: spacchettamento. Ovvero la messa a gara, aperta anche ad emittenti private, di singoli aspetti del servizio pubblico». È una strada tecnicamente percorribile? «Certamente. L'esempio migliore è quello dell'informazione regionale. Ci sono tante emittenti locali che funzionano molto bene e che potrebbero svolgere il ruolo di servizio pubblico». In che modo? «Io Stato stipulo il contratto di servizio pubblico con l'emittente locale, stabilisco degli obblighi e controllo che vengano rispettati. Tutto qui». Solo che... «Solo che le sedi regionali della Rai sono delle concentrazioni di potere, e se le tocchi poi magari qualcuno ci resta male». Quindi è come se la Rai dovesse avere la concessione per forza. «E questo impedisce a tante emittenti locali di crescere». Questo schema vale solo per l'informazione? «Non per forza: si potrebbero spacchettare la cultura, l'informazione religiosa, la musica, i servizi per gli italiani all'estero. Perché deve prendere tutto la Rai?». È un problema solo italiano? «In molti Paesi europei, inclusa la Gran Bretagna che del servizio pubblico radiotelevisivo è la culla, si va facendo strada la convinzione che lo spacchettamento fa bene al servizio pubblico». Questo vale anche per altri settori? «Certamente, basti vedere comparti come trasporti e telecomunicazioni. Attenzione, nessuno sostiene che il servizio pubblico radiotelevisivo vada archiviato: il protocollo al trattato di Amsterdam del '98 stabilisce che le emittenti che fanno servizio pubblico contribuiscono al pluralismo e alla conservazione culturale. Bisogna semmai stabilire cosa è servizio pubblico e cosa no». La programmazione della Rai è interamente servizio pubblico? «Definire servizio pubblico Miss Italia o i reality mi pare difficile. E allora uno potrebbe dire: “Questo non è servizio pubblico e io non te lo pago”». E invece la Rai fa il pieno di soldi pubblici. «E qui sta il nocciolo del problema. Ovvero le condizioni poste dall'Europa per l'incasso degli aiuti di Stato». Quali condizioni? «Posto che la questione non è la legittimità del servizio pubblico radiotelevisivo, che nessuno mette in discussione, ma come esso viene finanziato, la linea guida è quella sancita dalla Commissione europea nel luglio 2009». Stabilendo cosa? «Che si possono finanziare con la fiscalità generale anche programmi di vasto ascolto come le partite di calcio o i varietà, ma solo fintanto che queste attività soddisfano esigenze democratiche, culturali o sociali. Novero da cui vanno esclusi, ad esempio, il commercio elettronico, le televendite o i quiz a premi». Insomma, alcune cose possono finanziarsi col canone e altre no. «Esatto. Tu tv pubblica puoi prendere soldi dallo Stato, ma solo a patto di impiegarli in attività specifiche. E questo con la Rai in parte avviene e in parte no». E come si stabilisce quanto la Rai debba incassare? «Si prende come parametro una emittente privata e ben gestita. Per esempio, quanto costa a Mediaset fare tv? Quanti dipendenti ha? Quanti giornalisti? Quali retribuzioni? Se, poniamo, emergesse che un tecnico della Rai a parità di mansioni con uno di Mediaset guadagna il doppio ci sarebbe un problema, perché in questo caso il servizio pubblico distorcerebbe la concorrenza». di Marco Gorra

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