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Bonanni: «Siamo pronti a cambiare le regole»

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Il numero uno della Cisl apre alle proposte del ministro Sacconi: «Si può modificare anche lo statuto dei lavoratori»

Francesco Biscaro
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A Libero il ministro Sacconi ha detto di voler cambiare lo Statuto dei Lavoratori. Cosa ne pensa Raffaele Bonanni, il leader di uno dei maggiori sindacati italiani? La prende come una sfida o come una minaccia? Lo abbiamo chiesto a lui. «È una sfida che accogliamo volentieri, ma a una sola condizione, che per noi è irrinunciabile: le norme sul lavoro devono essere il frutto di un accordo tra le parti sociali. La politica, il governo e parlamento, possono avere una funzione di indirizzo e di stimolo. Ma poi le regole le scrivono le parti sociali. Questo è necessario per due motivi. In primo luogo, perché le parti sociali rappresentano il mondo del lavoro. E le nostre, tra l'altro, sono le meglio organizzate e le più responsabili d'Europa». L'altro motivo? «Perché solo in questo modo si avranno norme che durino nel tempo e siano realmente rispettate. Mi spiego: soprattutto in questa fase, caratterizzata da un bipolarismo molto spinto, una parte politica non può permettersi il lusso di scavalcare, sui temi del lavoro, le parti sociali. Il rischio sarebbe quello di introdurre norme che poi l'opposizione, una volta andata al governo, si affretterebbe a cancellare. Si alimenterebbero gli ideologismi, contro la buona pratica della convivenza e della responsabilità. Solo con la garanzia delle parti sociali una norma può durare nel tempo, oltre le contingenze della politica». Si parla da anni di riformare gli ammortizzatori sociali. Ma il sistema, alla prova della crisi, ha funzionato oppure no? Dove, a suo parere, bisognerebbe intervenire? «Mi lasci dire che quanto abbiamo fatto in questi mesi con gli ammortizzatori sociali non ha precedenti nella storia recente, né in Italia né in Europa. Anzitutto c'era chi usufruiva di meccanismi di protezione (penso alla cassa integrazione guadagni) che, davanti a una crisi molto lunga, si sarebbero rivelati insufficienti. E noi siamo intervenuti allungando i tempi di copertura. Quindi, abbiamo rinnovato il contratto di solidarietà, che permette di ridurre gli orari di lavoro per evitare i licenziamenti. L'integrazione salariale, in questi casi, è stata portata dal 60 all'80 per cento. Ci tengo a sottolinearlo perché è un cavallo di battaglia della Cisl già dagli anni '80: lavoratori e imprenditori vengono responsabilizzati allo stesso modo nella gestione di una situazione di emergenza, per ottenere due obiettivi: non chiudere l'azienda, oberandola di costi insostenibili in una fase di oggettiva difficoltà, e insieme mantenere tutta la forza lavoro. Terzo risultato, straordinario: assicurare una copertura a quanti prima non l'avevano. Penso alla cassa in deroga, finanziata con 8 miliardi di euro, frutto di un accordo tra Stato e regioni, che viene incontro alle piccole e medie imprese, i cui lavoratori erano privi di tutele. Nonostante siano loro la struttura portante del nostro sistema produttivo. Ho fatto questa lunga carrellata per dire che dalla crisi abbiamo imparato tanto, abbiamo preso confidenza con le difficoltà reali del Paese, e abbiamo offerto risposte concrete: è da questa esperienza che dobbiamo partire. A volte mi sembra che qualcuno invochi la riforma generale del settore disconoscendo però l'ottimo lavoro fatto finora». Da più parti si chiedono interventi a sostegno della formazione e delle politiche attive per il lavoro. Dopo la fase dell'emergenza è il caso di puntare sulla ricollocazione professionale dei disoccupati? «La vera riforma è in effetti proprio questa: integrare e poi saldare gli ammortizzatori come la cassa integrazione, la formazione e gli strumenti di ricollocazione professionale. Tutto questo deve diventare un'unica cosa. Penso in particolare alla sosta forzata di un lavoratore in cassa integrazione: si tratta di un tempo che non va perso, ma usato intensivamente per riposizionarsi professionalmente. Bisogna abolire i periodi morti». Quale ruolo avrà il sindacato? «Il trittico che prima elencavo (cassa integrazione, formazione, ricollocamento) dovrà garantire una gestione più efficace del tempo e delle risorse. Ma perché si verifichi l'auspicata saldatura non si può prescindere dall'impegno, con strumenti bilaterali, di imprese e lavoratori. È il principio della sussidiarietà: le parti sociali, essendo impegnate direttamente “sul campo”, sono meglio attrezzate per capire le esigenze reali di un settore di mercato e di un territorio. In questo modo si potrà vincere la lentezza con la quale spesso si collegano l'offerta e la domanda, le professionalità disponibili sul mercato e la ricerca del personale. Aggiungo un altro punto, che chiama in causa una fascia di lavoratori poco tutelata, quella che si trova al confine tra lavoro dipendente e lavoro autonomo: anche per loro bisogna pensare a strumenti di sostegno da finanziare con i contributi e non con la fiscalità generale (la Cisl ha recentemente fatto nascere Felsa, un'organizzazione dei lavoratori atipici che tra l'altro mira a uniformare la contribuzione previdenziale delle partite Iva a quella dei lavoratori parasubordinati, con pagamenti per 2/3 a carico dei datori di lavoro e per 1/3 a carico del lavoratore, ndr.)». Presentando il piano della nuova Fiat il principale quotidiano economico nazionale ha parlato di “flessibilità alla polacca” finalizzata ad aumentare la produttività: 18 turni a settimana, riduzione delle pause, orari variabili… Di questo passo non ci sarà il rischio anche di salari “alla polacca”? «Tutt'altro, anzi. L'aumento salariale in casi come questo va da sé. L'attuale sistema contrattuale premia la maggiore produttività con aumenti in busta paga. Inoltre, grazie all'accordo tra governo e parti sociali, le tasse sul salario di produttività sono state ridotte dal 30 al 10 per cento. Premesso questo, io rilevo che in un momento di crisi profondissima, mentre molte multinazionali stanno lasciando l'Italia, la più grande azienda metalmeccanica del nostro Paese annuncia investimenti miliardari e procede perfino a delocalizzazioni al contrario, dalla Polonia all'Italia, riportando da noi la produzione dell'auto più richiesta dal mercato, la Panda. Di fronte a ciò penso che non solo i sindacati, ma l'intera classe dirigente del Paese deve reagire positivamente. Sulla Fiat, peraltro, noi possiamo ben dire di averci visto giusto fin dai tempi dell'alleanza con Chrysler. Allora molti dicevano che l'accordo sarebbe stato disastroso per i nostri lavoratori, che l'Italia sarebbe stata trascurata nei nuovi piani industriali, che gli Stati Uniti e l'America Latina sarebbero diventate centrali. Si parlava di “deitalianizzazione”, di chiusure di fabbriche. Noi invece, e oggi lo ricordo con orgoglio, abbiamo subito capito e detto che l'alleanza di Fiat con Chrysler era importante, per le economie di scala che produceva e, soprattutto, per il rafforzamento della rete commerciale, che oggi è un elemento decisivo per il successo di una casa automobilistica. Avevamo anche auspicato l'intesa con la Opel, che poi di fatto è saltata perché i tedeschi non volevano mettere in difficoltà la Volkswagen». Insomma il nuovo piano Marchionne a posteriori ha dato ragione a voi? «I profeti di sventura non ci ascoltavano, ma ora che la Fiat annuncia l'aumento della produzione in Italia da 650 mila veicoli a un milione e 400mila possiamo ben dire che avevamo ragione noi. Adesso chiederemo che siano rafforzati gli strumenti partecipativi per sfruttare al meglio gli impianti e rendere i dipendenti Fiat ancora più consapevoli e compartecipi dei disegni dell'azienda». A proposito. La partecipazione dei lavoratori agli utili d'impresa (di cui la detassazione del salario di produttività potrebbe essere un primo passo) non dovrebbe logicamente comportare anche una rappresentanza negli organi decisionali? «Questa è una bandiera che la Cisl impugna dal momento della sua nascita, 60 anni fa (il sindacato di Bonanni nasce il 30 aprile 1950, ndr.). È scritto nel nostro statuto. Siamo da sempre il sindacato della responsabilità e della partecipazione. E questo, bisogna dire, è un periodo in cui queste idee trovano un'accoglienza che fa ben sperare. Noi puntiamo in due direzioni: far valere collettivamente, come un pacchetto unico, le azioni dei lavoratori ed entrare negli organismi di indirizzo e di controllo per contribuire alle decisioni sulle sorti dell'azienda. Non si parla della gestione vera e propria, naturalmente. È da sempre la nostra filosofia: la responsabilità contrapposta al ribellismo sterile, il coinvolgimento contrapposto agli antagonismi estremistici di chi è fuori dai giochi perché ce lo mettono, o magari perché ci si mette da sé».

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