Il segretario della Cisl sfida la politica: "Ora un nuovo patto sociale"
Bonanni, contestato a Torino, dall'ultrasinistra, propone un'intesa sulla produttività. "L'accordo di Pomigliano?Per noi è il modello da seguire"
di Attilio Barbieri- Un nuovo patto sociale capace di mobilitare attorno a obiettivi condivisi le migliori energie dei lavoratori, delle imprese e della politica. E una stagione di pacificazione in cui quanti sono seduti nelle stanze dei bottoni, sia a livello nazionale sia a livello locale, lascino da parte tatticismi e rivalità e comincino davvero a lavorare per l'interesse del Paese. Per aprire una nuova stagione votata allo sviluppo. È questo il messaggio lanciato da Raffaele Bonanni, abruzzese di Bomba, in provincia di Chieti, segretario nazionale della Cisl. Un uomo di grande coraggio anche personale, come ha dimostrato l'altroieri alla festa del Pd quando non si è lasciato intimidire dalla contestazione dei centri sociali. Prendendosi un fumogeno sul giubbotto. «Vorrei incontrare quella ragazza che mi ha lanciato addosso quel bengala. Pensi, ha 24 anni, più o meno come mia figlia... Mi domando cosa sappia lei dei problemi del lavoro, delle fabbriche, dei diritti. Sono dei poveri ragazzi in mano a cattivi maestri. Per fortuna una minoranza nel nostro Paese. Ma dobbiamo stare attenti perché chi predica odio raccoglie solo violenza. Questo dimostra la storia del nostro Paese». La tensione sale? La politica si divide? Eppure Bonanni non esita a chiedere uno sforzo epocale, fidando sulla capacità dei partiti e delle forze sociali di invertire la rotta. E sarà questo il tema al centro della manifestazione indetta per l'8 ottobre assieme alla Uil: o si cambia in fretta oppure potremmo trovarci fra poco nel bel mezzo di una nuova crisi. Tutta italiana questa volta. «Non sarà uno sciopero generale ma una protesta, un'occasione per sensibilizzare il governo centrale e i governi locali e sollecitarli a promuove una riforma radicale del Fisco come da tempo chiediamo. E a mettere insieme tutte le volontà per determinare una condizione nuova sui fattori dello sviluppo. Ora sono tutti starati e ci condannano. Siamo quelli che crescono meno fra i grandi Paesi europei e con un costo pro capite di prodotto che è aumentato mentre tedeschi e francesi l'hanno ridotto in modo importante». Prodotti sempre più cari ma retribuzioni ferme… «Le tasse si mangiano gran parte del reddito di lavoratori e pensionati. Sull'aumento dei prezzi di produzione pesano costi e disfunzioni di sistema ingestibili. Penso all'energia che ci costa molto più di quanto la paghino i Paesi concorrenti, nuovi o vecchi che siano. L'energia elettrica da noi si produce quasi interamente con risorse fossili a un costo esorbitante. Le infrastrutture poi sono le stesse degli anni Settanta e la manutenzione è davvero rarefatta. Quanto a ricerca, innovazione e istruzione siamo il fanalino di coda. I servizi alle imprese e alle famiglie sono costosissimi e gestiti al di fuori di una logica di concorrenza. Penso allo strabordante ruolo delle municipalizzate o alla presenza ingombrante delle mafie che hanno un effetto di dissuasione sugli investitori italiani ed esteri. «E poi c'è il macigno delle tasse che pesano su lavoratori e pensionati al punto da ridurre fortemente i consumi. Che quando languono, come accade ora, mandano a fondo l'economia. Certo, molte imprese manifatturiere vivono soprattutto di esportazioni, ma se non riescono a vendere i loro prodotti anche sul mercato interno che per la stragrande maggioranza rappresenta almeno il 60-70 per cento del fatturato, sono destinate a morire». Un quadro con colori plumbei. A di poco… «La realtà è questa. È per questo che scendiamo in piazza l'8 ottobre. Evidentemente la crisi non ci ha insegnato nulla. Non ci è servita». In che senso? «Siamo l'unico, fra i grandi Paesi, a non aver approfittato dell'occasione per curare i nostri mali. Un errore grave riconducibile a una classe dirigente che preferisce il litigio su fattori personalistici anziché assolvere al proprio compito primario, quello di gestire le urgenze. Non importa se ci si trovi in maggioranza o all'opposizione, a livello centrale o a livello locale. È un atteggiamento trasversale, comune a tutta la nostra politica. D'altronde è un ventennio che i problemi strutturali del nostro Paese sono abbandonati a loro stessi. Lasciati andare per contro proprio». Ma come si può conciliare l'idea di un nuovo patto sociale, con il clima di iperconflittualità che si è creato. Pensiamo solo allo scontro sull'accordo siglato dalla Fiat nello stabilimento di Pomigliano d'Arco… «Pomigliano è stata più un'occasione che altro. Solo chi vede tuttora il salario come una variabile indipendente dall'andamento dell'impresa e dell'economia può bocciare questo modello. È solo propaganda. L'alternativa era una sola: la chiusura della fabbrica che era afflitta da problemi incredibili. La Fiat si è impegnata a produrvi la Panda, uno dei modelli più pregiati per il mercato. I diritti non sono stati toccati e comunque continuano ad esistere se le fabbriche restano aperte. I guadagni? Saranno largamente superiori ai precedenti. Secondo i nostri calcoli l'accordo porterà 4mila euro lordi in più in busta paga: e se dovessimo arrivare al 18esimo turno, che significa lavorare per tre turni al giorno compreso il sabato, con la saturazione completa dell'impianto ci saranno altri 700 euro lordi in più al mese su ogni busta paga». Ma allora chi boccia senza appello il modello Pomigliano perché lo fa? «Un sindacato che rappresenti i lavoratori e che non viva di chiacchiere deve lavorare in questa prospettiva. Ecco perché dobbiamo impegnarci, noi e le imprese, per mettere a punto uno schema simile a quello definito nello stabilimento canpano. Pomigliano è stato un successo e non un armistizio. Non esistono diritti senza fabbriche. Non esiste cittadinanza senza lavoro». Dunque dobbiamo prendere atto che la realtà è cambiata. E il passato non ritornerà più. Perfino il Papa ha esortato i giovani a guardare al futuro senza puntare esclusivamente al posto fisso. Lei è d'accordo? «Fa bene Benedetto a ricordarlo. Ricordo la parabola evangelica dell'ultimo vignaiuolo: è giusto pagare la stessa mercede anche al lavoratore che arriva alle 5 di sera. Ma questo è possibile solo in virtù di quanto viene descritto in un'altra parabola, quella sulla moltiplicazione dei talenti...». Ce la ricorda? «Si parla di un uomo che parte per un viaggio e affida i suoi beni a tre servi. Al primo affida tre talenti, al secondo due e al terzo uno solo. I primi due, sfruttando la somma ricevuta, riescono a raddoppiarla; il terzo invece va a nascondere il talento ricevuto e lo restituisce tal quale al padrone. Al suo ritorno i primi due vengono premiati per la loro intraprendenza, il terzo no». Il principio è condivisibile. Ma oggi cosa significa? «Ci può essere solidarietà, ma senza il raddoppio dei talenti non esiste possibilità di sviluppo. Se ci scostiamo dalle regole di mercato, che scandiscono la vita economica, sociale e politica in tutto il mondo, rinunciamo al progresso e allo sviluppo. I giovani devono sapere che non c'è alternativa: o l'economia si riprende e torna a crescere oppure non ce n'è per nessuno. Non è un caso se la recessione ha colpito più duramente proprio chi ha meno di 24 anni, i meridionali e le donne, le tre figure più deboli nel mercato del lavoro». Ma come se ne esce? «In un unico modo. Serve un nuovo patto sociale che veda tutte le componenti fare qualcosa di importante. Un passo avanti significativo lo devono compiere sindacati e imprese, come pure Comuni, Regioni e Stato. Non so che succederà in politica e spero francamente che non si vada a votare: sarebbe un'ulteriore mazzata sulla testa degli italiani nel momento in cui i mercati devono essere rassicurati sulla stabilità politica ed economica e sociale. Da questo non si scappa».