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Un presepe in Siria

filippo facci

Andrea Tempestini
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Anzitutto: conoscere l'Islam non può diventare un dovere. Molti talkshow fanno a gara per ospitare degli imam - spesso brave persone - che parlano di «integrazione culturale» e soprattutto chiedono spazi per «spiegare» un po' di Islam anche a noi, così ci integriamo meglio. Mi piacerebbe potergli rispondere che la battaglia per l'integrazione culturale, in Italia, c'è chi l'ha fatta per decenni ma con gli italiani, meglio, tra italiani: una battaglia, ossia, per radicare i principi base dell'educazione civica, i cardini dello Stato di diritto, l'adesione alla carta costituzionale, la parità uomo-donna (su cui non vogliamo ridiscutere nulla) e poi il suolo pubblico che non si può occupare né sporcare, le file che si devono rispettare, persino il corpo che si deve lavare, ma soprattutto una cosa: la laicità dello Stato. Invece succede che la pretesa del «confronto» tra una cultura intrisa di religione e la nostra, purtroppo, sta spingendo la nostra a riarmarsi di tradizioni religiose come se fossero uno scudo. E questo è un brutto passo indietro, a parer mio. Apprendere che la Regione Lombardia vuole «riportare i canti religiosi nelle scuole», o vedere politici che girano le aule a cantare «astro del ciel», beh, no, non mi rende orgoglioso. Vorrei vedere Renzi che a un vertice Nato, tra gente che ha mandato gli aerei in Siria, dicesse: da noi il burka è legale, gli islamici pregano per strada, ma abbiamo reso il presepe obbligatorio. di Filippo Facci @FilippoFacci1

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