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Andrea Pazienza, il disegnatore anarchico che non voleva essere costretto a fare la rivoluzione

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Davide Locano
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Per affermare -controcorrente- che, in fondo, ad Andrea Pazienza dei tumulti infiammabili del '77, fregava poco, basterebbe citarne le galoppate sul suo Astarte nelle praterie di Montepulciano. Le faceva proprio mentre la «controrivoluzione culturale» avvolgeva la sua Bologna in un sudario lisergico fatto di cortei di protesta e molotov. Di Pazienza, per ragioni anagrafiche, io ho conosciuto solo il mito retroattivo. Ma Sergio Angeletti in arte Angese, talento inarrivabile della satira e tra i fondatori, come Pazienza, della rivista Il Male, mi raccontava sempre che il vero «Andrea non è quello dei ciclostilati al Dams contro il Kossiga (allora odiato ministro degli Interni, ndr) Furioso; ma quello della sperimentazione sul foglio...»; e qui Angese evocava, con lacrimuccia, le gare in campagna, tra lui ed Andrea, a chi disegnasse meglio Sandro Pertini. Pazienza era così: più che un disegantore, un poeta armato. Un animo gentile e una faccia da schiaffi immerse in un turbine di talento. Ed è giusto che a un trentennio dalla morte, a soli 32 anni, l'Art Festival e Comicon allestiscano al Mattatoio di Roma Andrea Pazienza, trent'anni senza (catalogo Coconino Press) con esposte 120 tavole originali, compreso uno «Zanardi a cavallo» che il regista Matteo Garrone teneva nascosto in casa. Ed è encomiabile che la rivista Linus in edicola sia dedicata al cartoonist di San Severo con tanto di articoli pindarici -quello di Massimo Zamboni- e di tavole omaggio -la più belle quelle di Giuseppe Palumbo- per non dire della copertina di Paolo Bacilieri che rappresenta Pazienza come un'isola raggiungibile,oggi, da troppi turisti. Ed è commuovente che Oscar Glioti ne sfruculi la mitologia nel saggio Fumetti di evasione -Vita artistica di Andrea Pazienza (Fandango, pp306, euro 15), laddove risuona una frase classica del genio: «Il fumetto è evasione, è sempre evasione, deve essere evasione, del resto la parola evasione è una bellissima parola, evadere è sempre bello, la cosa più saggia da fare». A dimostrazione, appunto, che nonostante ideologie a sinistra avessero cercato d'incasellarlo negli anni a venire; be', Pazienza pur con qualche contributo editoriale controvoglia, teneva a precisare che quella rivoluzione che gli si stava accendendo attorno non era la sua. Nell'opera di Glioti, ad essere onesti, si cita sì il contesto culturale in cui operava Paz - il mondo Cannibale, il Collettivo A/traverso ispirato ai futuristi bolscevichi, Alter Alter e Frigidaire, Marx, Adorno, Foucault e Nietzsche frullati insieme non si sa come- ma ci si concentra sull'opera. Il saggio è scandito in tre capitoli dedicati ai personaggi più celebri di Pazienza: Pentothal (ispirato al quasi coevo Garage ermetico opera visionaria del francese Moebius) periodo di esplosione grafica con trama rarefatta; Pompeo periodo romanzo illustrato; e Zanardi, l'eversore dal profilo grifagno la cui cattiveria ricorda quella dell'Alex DeLarge di Arancia meccanica, periodo narrativo. Tra l'altro viene citata la storia Perché Pippo sembra uno sballato, in cui Topolino offre a Pippo -in versione freak- cinquantamila dollari per tornare ad Hollywood e girare «quei film che rincretiniscono i bambini» (Pippo rifiuterà). SATIRA E ALTRO Personalmente, di Pazienza preferisco le tavole pittoriche e le storie liriche come quella, incompiuta ispirata a Magnus, su Astarte il molosso di Annibale, nome che Pazienza darà anche al proprio cavallo. E impazzisco per la sua satira: le tavole di Pert e Paz, le avventura di Pertini e Pazienza partigiani della vita, e la vignetta fulminante del Papa Wojtyla, in vestaglia di seta, ai bordi della piscina, con un Vodka Martini con olivella in mano, che si chiede, volto al cielo: «E se esistesse davvero? Ma no, cosa vado a pensare...». La satira, non certo la militanza politica, era il massimo del suo impegno. Per il resto Pazienza, come Curzio Malaparte, era un esteta puro, un narciso artistico: pochi ricordano alle superiori un suo cortometraggio nei panni del proprio modello, Caravaggio. Bene, che oggi lo si ricordi. Purchè non si esageri. Dice il di lui compare Vincenzo Sparagna a Linkiesta: «Andrea è diventato quasi paradigmatico, siccome è morto, allora si ripubblicano pure gli schizzetti che faceva da bambino, che non hanno nessun valore e che lui non avrebbe mai pubblicato. Non è che tutte le volte che toccava con la penna un foglio di carta tirava fuori un colpo di genio per cui essere immortalato nei secoli. All'epoca la commissione editoria ci tagliò i contributi di cui avevamo diritto per mezzo miliardo di lire. Andrea quel giorno scrisse una lettera aperta, ma non rispose nessuno, cadde nel silenzio. Cioè, in vita lo costringono a disegnare per le peggio riviste per tirare a campare, poi invece adesso, da morto, lo celebrano tutti con questo mito orribile del genio assoluto». Sono assolutamente d'accordo... di Francesco Specchia

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