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La felicità si raggiunge allenandosi: ecco gli esercizi e le parole giuste

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Gino Coala
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A lezione di felicità si impara che la felicità non è una pepita d' oro da cercare nelle pieghe delle nostre giornate, ma è un muscolo da allenare con tenacia. E noi, che per una vita abbiamo sperato di trovarla in un biglietto della lotteria, tra le braccia di un principe azzurro, alla scrivania del lavoro dei sogni o su un aereo diretto ai Caraibi, in poche ore abbiamo capito di aver sbagliato tutto. L' invito al corso "Allenati alla felicità" arriva via Facebook e la prima reazione è: «Ma va, figuriamoci se ho tempo da perdere», poi però la curiosità e la voglia di guardare in faccia il maestro della felicità hanno il sopravvento. La lezione comincia alle dieci in punto di un sabato mattina in cui il cielo di Milano è plumbeo e gonfio di pioggia. La sala spoglia e bianca è piena di gente. Ci sono donne di tutte le età ma anche uomini con i loro blocchi per gli appunti già aperti sulle gambe. Arrivano da tutt' Italia e chissà quali dolori nel cuore e quanti pensieri in testa li hanno spinti fino a qui, in mezzo a sconosciuti, ad ascoltare una donna che non hanno mai visto prima. L' esperta di felicità si materializza con un sorriso sulle labbra e una scintilla negli occhi. Si chiama chiama Alli Beltrame ed è una counselor mamma di tre figli che la vita ha messo ripetutamente all' angolo. Ed è forse proprio questa la forza delle sue lezioni: Alli ha studiato sodo filosofi, psicologi e testi di tante religioni, ha diplomi e abilitazioni che ad elencarli servirebbe tutto il giornale. Durante il corso cita tutti i fondamenti scientifici che supportano le sue parole però sicuramente è quando dice: «Se ce l' ho fatta io potete farcela anche voi» a convincere tutti che la felicità è davvero un allenamento (su www.educazioneresponsabile.com tutte le info sulle prossime città e le date dei corsi). IL POSTO GIUSTO A vent' anni ha visto la malattia rosicchiare la sua gioventù e inghiottirsi il corpo della mamma, a trenta è rimasta vedova con un figlio di diciotto mesi, poi ha perso il lavoro. Nel frattempo nella sua vita è arrivato un nuovo uomo e poi un altro figlio che però ha messo in fuga il fidanzato... «Insomma, di sfighe ne ho avute tante», dice lei sorridendo. E comincia a spiegare com' è possibile concretamente portare la felicità nella propria vita. La prima regola è smettere di cercarla fuori di noi. «Viviamo immersi nella cultura della mancanza. Leghiamo la felicità al raggiungimento di un obiettivo e diciamo: "Sarò felice quando sarò ricco; oppure quando troverò il compagno della mia vita; o ancora quando andrò in vacanza". Ma il futuro è un' allucinazione. La felicità bisogna cercarla qui, nella giornata e nel momento in cui vivo. Se si pensa al passato ci si deprime, l' idea del futuro crea ansia». Insomma, il primo insegnamento è gustarsi il presente come quando si succhia una caramella. E poi bisogna rivoluzionare la percezione che abbiamo di noi. «Dobbiamo riscoprire la responsabilità delle nostre emozioni e, quindi, sganciarci dall' incolpare qualcosa di esterno, di quello che noi proviamo. Le persone credono di non avere la possibilità di cambiare la propria condizione e questo è gravissimo sia perché ci sia sente impotenti sia perché in questo modo non ci si prende cura di sé. La nostra società non ci fa sentire mai abbastanza, invece lo siamo. Sin da piccoli ci dicono: "Sei intelligente, ma non ti impegni", "Sei creativa, ma non hai talento", "Sei carina, ma la bellezza è un' altra cosa". Invece di soffermarci su quello che non siamo o non abbiamo, dovremmo imparare a ribaltare la prospettiva da cui ci guardiamo e finalmente pensare di essere abbastanza. Viviamo in una sorta di sottomissione che porta alla paura». Alli si ferma, prende fiato. Ma è chiaro che la sua è una strategia per lasciar sedimentare questi concetti. Nell'aula c' è un silenzio surreale, gli occhi di tutti sono raggi laser fissi su di lei che riprende a parlare: «Abbiamo timore di reagire a persone fatti o eventi. Fatichiamo a uscire da situazioni che sono oggettivamente dannose per noi, ma non ci sentiamo abbastanza preparati per affrontare qualcosa che non conosciamo. Restiamo nel nostro brodo, che non ci piace, ma non abbiamo la forza di cambiare. In questo stato di autosuggestione la nostra forza la nostra energia si auto-consuma. Siamo sempre tesi e quindi stanchi. Questa stanchezza, nel caso dei genitori, ha ricadute sui bambini. Il nostro spegnerci ci porta a non tollerare la loro carica energetica. C' è quindi questa lotta continua tra il loro bisogno di muoversi, di urlare, di sapere, e la nostra bassa frequenza. E quindi i bambini pensano di essere sbagliati e, crescendo, sentono la nostra stessa inadeguatezza». «HAI RAGIONE» Sembra tutto facile, ma come si fa? Alli dà dei suggerimenti pratici. Il primo: quando ci sentiamo sotto pressione, quando le cose da fare sono troppe e il tempo è poco, bisogna fermarsi e fare un bel respiro. «Un atto semplice, che ha dei benefici immediati: intanto ossigena il cervello e ci impedisce di commettere errori perché normalmente quando abbiamo la mente offuscata prendiamo decisioni e facciamo cose sbagliate. Il secondo è quello di riportare l' attenzione sul presente». Dovremmo imparare a riflettere su quello che ci accade dentro e non farci travolgere dello tsunami delle nostre giornate piene di impegni. «Bastano pochi minuti al giorno. All' inizio, quando vi fermerete e chiuderete gli occhi penserete alle cose da fare: l' appuntamento da rinviare, la relazione da presentare al capo, il figlio da recuperare a scuola... Poi col tempo questi pensieri scivoleranno via». Con grande sorpresa scopriamo che esistono due parole che ci proteggono dallo stress, dalle persone che ci riversano addosso le loro idee rifiutando un confronto costruttivo. Una formula magica come quella che nelle fiabe apre tutte le porte, solo che questa chiude le porte allo stress. Dite: «Hai ragione». Quando vi ripetono che prendendo in braccio i vostri figli li viziate o quando il vostro capo vi stressa, potete annientare tutti con queste due parole che zittiscono l' interlocutore e vi difendono dalla valanga di inutili "blablabla". Il corso teorico dura tre ore, segue un laboratoriopratico. Quando finisce la lezione si esce dall' aula con un senso di leggerezza e gratitudine. Per quello che si è e per quello che si ha. All' uscita piove ma nessuno si arrabbia perché non ha l' ombrello. Forse qualcosa è già cambiato. Tu chiamala, se vuoi, felicità. di Lucia Esposito

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