I kamikaze di Fini
La grande rivolta dell'ex leader di An è fallita. Le sue truppe sono scomparse. Ormai gli resta un manipolo di disperati che vanno avanti perché non possono tornare indietro
di Mario Giordano - Senza arte né parte né partito. Povero Fini: attorno a lui, ormai, è rimasto solo l'esercito dei fantozzi, la brigata ridolini, un'armata Brancaleone di disperati che non fuggono solo perché non saprebbero dove andare. Chiusi nella ridotta del Secolo d'Italia, vanno incontro al suicidio politico per evidente mancanza di alternative. Chi poteva scegliere, ha scelto: i colonnelli stanno con Berlusconi, i capitani pure, perfino i sergenti maggiori hanno trovato spazio. Restano Urso, Bocchino, Valditara, Fabio Granata e pochi altri, tutti lì a chiedersi: e noi chi siamo, uomini o caporali? Sanno benissimo di essere, più che finiani, finiti. Davanti ai loro occhi vedono aprirsi un orizzonte politico ampio come un loculo, ma non riescono a tirarsi via dal corteo funebre che li seppellirà. Li abbiamo chiamati pomposamente kamikaze, ma solo perché abbiamo la certezza che i kamikaze veri, per ovvie ragioni, non sono nelle condizioni di querelarci: nel gesto assurdo dei samurai infatti c'è almeno la dimensione della tragedia. Qui non si va al di là della farsa. Per dire: l'ultimo messaggio lo consegnano sbraitando a tarda notte nella trasmissione Tv di Gianluigi Paragone. Di solenne, evidentemente, non c'è proprio un tubo (catodico). Quella trasmissione era proprio da vedere. Ospiti in studio: Bocchino, Urso e Valditara. A un certo punto qualcuno chiede loro se i finiani formeranno, come minacciato, i loro gruppi parlamentari. E quelli: «E no, perché per formare un gruppo ci vogliono 20 deputati e 10 senatori». E voi quanti siete? «Tre/quattro deputati e un paio di senatori». Avete capito? Tutto ‘sto casino, le liti furibonde, gli urlacchi su Raidue, le minacce e i toni esagitati, il rapido passaggio dalle celebrazioni della vittoria elettorale alla generale sensazione di impasse, per chi? Per che cosa? Tre quattro deputati e un paio di senatori? E le riunioni di corrente dove le hanno organizzate? Nell'ascensore? La verità ti fa male lo so, ma la verità è che l'ufficio di presidenza del Pdl ha votato all'unanimità il documento che invitava Fini a miti consigli. Vorrà pur dire qualcosa no? Semplice: vuol dire in tutto l'ufficio di presidenza del Pdl non c'è uno che sia uno disposto a spendere mezza parola per Gianfranco. Se si andasse davvero alla scissione più che scissione sarebbe una caduta di briciole: tutti coloro che hanno voti e storia politica, da La Russa a Gasparri, da Matteoli ad Alemanno, si schiererebbero contro. Avete visto forse qualcuno di loro esporsi per sostenerlo? Macché. Persino quelle che fino a poco tempo fa erano considerate le nuove fidatissime leve del presidente della Camera, il ministro Giorgia Meloni e il neo presidente del Lazio Renata Polverini, sembrano ormai più vicine a Berlusconi che al loro ex leader. Chi vuol essere lieto sia, del doman con Fini non v'è certezza. Chi resta dunque all'ex generale di An? Solo quelli che non riuscirebbero ad accasarsi nemmeno portando in dote Monica Bellucci. Italo Bocchino, che ha lo spessore politico della carta velina, Fabio Granata, uno cui non pare vero di aver trovato un po' di visibilità facendo il pierino antiberlusconiano del Pdl, e Adolfo Urso, il viceministro che solo per restare agli ultimi mesi è stato in: Australia, Nuova Zelanda, Kenya, Malesia, Singapore, Russia, Bielorussia, Panama, India, Croazia e Mongolia, sempre a spese nostre e purtroppo sempre con un biglietto di ritorno. E poi? Ah sì, ci sono i giornali, le fondazioni, aspiranti intellettuali come Flavia Perina e Alessandro Campi, e quelli che parlano sempre di Farefuturo, ben sapendo di non averne uno. Voi capite che affrontare la battaglia della vita con una truppa di questo genere è come fare la campagna di Russia con Pippo, Pluto e Paperino. O come andare a giocare la finale di Champions con la selezione scapoli-ammogliati del paese. Non c'è partita e soprattutto non c'è partito. Fra l'altro questi gianduia della disperazione dicono anche cose sconnesse: l'altra sera nella già citata trasmissione di Raidue Italo Bocchino parlava come un marcotravaglio qualsiasi e Urso usava toni da pescivendolo forse appresi durante l'ultimo viaggio in Malesia. Poveretto, probabilmente ha passato troppo tempo sugli aerei ad alta quota. Sta perdendo contatto con la realtà. Una delle questioni più urlacchiate dai due era quella della democrazia nel partito. Accusano il Pdl di cesarismo. E questa è veramente divertente perché sia Bocchino sia Urso vengono da An, un partito dove la democrazia era pari a quella della Corea del Nord. Il presidente veniva scelto per acclamazione e gli organi del partito si riunivano al massimo per sancire quello che il medesimo presidente aveva deciso sotto la doccia in beata solitudine. L'unica direzione possibile era quella dello sguardo di Fini: dove lui rivolgeva gli occhi tutti andavano in processione. E la discussione interna? Sicuro: si faceva al bar. Come quando nel luglio 2005 i colonnelli (Gasparri, Matteoli e La Russa) si trovarono a due passi da Montecitorio e osarono criticare Gianfranco in una conversazione privata: la conversazione fu riportata sul “Tempo” e Fini quattro giorni dopo li rimosse tutti dagli incarichi. «Ho fatto un nuovo organigramma», annunciò semplicemente alle agenzie. Riunioni di partito? Organi direttivi? Macché. Fu destituito su due piedi anche Matteoli che pure era stato investito solo due settimane prima della carica di segretario organizzativo. Quando si dice la democrazia. Comunque ora, se fanno la scissione delle briciole, i pasdaran finiani potranno finalmente organizzarsi democraticamente: uno farà l'autista di Fini, uno il maggiordomo, uno gli farà aria col ventaglio nelle giornate d'estate. Del resto che ci volete fare? Quelli che sono rimasti attaccati come una cozza al presidente della Camera devono tutto, ma proprio tutto: magari non lo sopportano, come tutti, come quelli che se ne sono andati, ma loro sono così malmessi che non riescono nemmeno a sbattere la porta. E così restano chiusi lì, nella trappola di Gianfranco, destinati a sparire insieme a lui. Kamikaze senza l'eroismo della scelta, aspiranti suicidi privi di ogni nobiltà, in fondo solo sancho panza che non amano il loro donchisciotte. Una squadriglia di poveretti, insomma, che ha al suo interno anche un potenziale portavoce da mandare in Tv: in genere costui appare poco, ma siccome, per quante brutte figure faccia, non può far peggio di Bocchino e Urso, lo consigliamo vivamente. Vista la situazione, se non altro, ha il nome più indicato. Si chiama Donato Lamorte.