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Bangkok, continuano gli scontri. Ultimatum alle camicie rosse. Gli Usa evacuano l'Ambasciata

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Sale a 150 il numero dei feriti, 22 le vittime. Onu, Washington e le comunità religiose chiedo di fermare le violenze

Tatiana Necchi
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Gli Stati Uniti hanno deciso di evacuare una parte dello staff dell'ambasciata a Bangkok, a causa dei violenti scontri in corso nella capitale talandese tra manifestanti antigovernativi e forze di sicurezza, che hanno fatto in 48 ore oltre venti morti. Lo ha annunciato in un comunicato il dipartimento di Stato Usa. È ancora alta la tensione nella capitale thailandese. Da tre giorni militari e manifestanti si stanno scontrando. Al momento i soldati hanno inviato dei rinforzi per cercare di far salire al massimo la pressione nel quartiere di Ratchaprasong, la zona occupata dalle "Camicie rosse". Vogliono anche cercare di isolarla completamente. Siamo di fronte a una situazione tesa: i militari si aspettano una resa dai manifestanti sotto assedio. (guarda la gallery). Un portavoce dell'esercito afferma che esiste un piano per evacuare il quartiere ma che non è ancora stato stabilito quando dare il via alle operazioni. Questa manovra sta comunque lasciando senza acqua e senza cibo le "Camicie rosse". Ma non solo: manca anche l'elettricità. Ma Kwanchai Praipana, uno dei leader degli anti-governo, ha fatto sapere che continueranno a combattere. Altri 2mila manifestanti si sono radunati sulla strada principale che porta a Klong Toey, a circa due chilometri dall'area presidiata dall'esercito (guarda la gallery).  Il numero delle persone morte è salito tragicamente a 22. Tutti civili. Sale a 150 il numero dei feriti. Tre di loro sono giornalisti. Il più grave è un canadese, Nelson Rand che lavora per France 24: è stato colpito da tre proiettili. «Sono prigioniero in casa. Per la prima volta nella mia vita ho guardato dentro il frigorifero pensando che dovrò razionare il cibo». Questa è una testimonianza che arriva direttamente da Bangkok, riportata dal sito della Bbc. A pronunciare la frase è stato il londinese John Taylor. Racconta di vivere in un appartamento ad appena un isolato dal centro degli scontri nella capitale thailandese. «Vicino a casa - racconta nella sezione del sito che racconta in diretta i fatti di Bangokok - c'è stata un'esplosione che mi ha sbalzato in aria. Ieri sono rientrato in taxi. Quando l'autista ha visto che eravamo vicini alla zona degli scontri è scappato a piedi. Mi ha lasciato da solo in macchina. Mi sono ritrovato in mezzo ad una sparatoria pazzesca. Per fortuna ho trovato un motociclista che mi ha dato un passaggio. Ora sembra di essere nel momento di calma che precede la tempesta». La Farnesina ha sconsigliato ai cittadini italiani di recarsi nella capitale. Ieri sono state chiuse anche le ambasciate di Gran Bretagna e Stati Uniti. Oggi ha chiuso le porte anche l'ambasciata canadese situata proprio tra i due punti in cui si sono verificati gli scontri più gravi, vicino al parco Lumphini. Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ha rivolto un appello sia al governo thailandese che ai leader della protesta, invitandoli ad impedire ulteriori violenze. Il segretario generale ha incoraggiato con forza le parti a "tornare al dialogo, in modo da far calare la tensione e risolvere la questione in modo pacifico", si legge nella dichiarazione diffusa dal Palazzo di Vetro.  Anche Washington chiede di fermare le violenze e "trovare un modo pacifico di superare le differenze" tra le posizioni del governo e quelle dei manifestanti che chiedono le dimissioni del premier Abhisit Vejjajiva e nuove elezioni. Idee di pace arrivano anche dalle comunità religiose. L'arcivescovo di Thare e Nonseng e Presidente della Conferenza Episcopale della Thailandia, Louis Chamniern, propone «un intervento dei leader religiosi potrebbe servire a esplorare nuove vie di dialogo e di mediazione, e a offrire una soluzione pacifica alla crisi». Secondo il prelato questa sarebbe un'ultima possibilità prima della possibile esplosione della guerra civile che rischia di insanguinare la nazione. I leader delle diverse comunità religiose thailandesi, buddisti, cristiani e musulmani, più di un mese fa si sono incontrati e al momento stanno esprimendo pubblicamente il comune sostegno a iniziative di dialogo e di riconciliazione: «godono di fiducia, credibilità e stima della popolazione, che oggi potrebbero essere molto utili per risolvere lo stallo e scongiurare altra violenza - spiega l'Arcivescovo - Non ci stancheremo di dire che l'unica strada è il dialogo: occorre deporre le armi e abbandonare la soluzione violenta della crisi. Temo che il paese sia all'inizio di una guerra civile che, se non si ferma, sarà una catastrofe». Il prelato sostiene che tra le parti vi sia stata «evidente incomprensione» e non vuole perdere il conflitto. Qundi in questa fase il contributo dei capi religiosi potrebbe essere decisivo. Ieri 27 manifestanti sono stati arrestati  e condannati a sei mesi di prigione per aver violato le disposizioni previste dalla stato d'emergenza dichiarato dal governo.  Le persone sono state giudicate dal tribunale del Pathumwan District. Secondo il quotidiano online thailandese 'The Nation" i manifestanti in un primo tempo erano stati condannati a 12 mesi di detenzione ma la pena è stata dimezzata dopo che gli accusati hanno ammesso la loro colpevolezza.

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