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Repubblica usa la P3 per pilotare i finiani

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di Gianluigi Nuzzi - Il giornale di De Benedetti collega il premier alla "loggia": la procura lo sentirà. Ma è falso: l'obiettivo è convincere Fli a uscire dal governo

Tatiana Necchi
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di Gianluigi Nuzzi - Per valutare la credibilità di Repubblica, si può confrontare il titolo d'apertura in prima pagina dell'edizione di ieri del quotidiano di proprietà di Carlo De Benedetti, “P3, la procura sentirà Berlusconi”, con quanto pubblicato nella tarda mattinata sempre di ieri sull'homepage di repubblica.it. Infatti sul sito del foglio pro-chiunque faccia cadere il Cavaliere (magistrati, ex camerati, socialdemocratici rifiutati e forse, chissà, persino i pirati della strada ma non i lanciatori di statuette: loro sono patrimonio del Fatto), si legge: «Voci su una convocazione della magistratura» di Berlusconi. In sostanza, repubblica.it  afferma che Repubblica ha dato per certa la convocazione del premier in procura a Roma sulla base di «voci». Ha sparato in prima pagina una notizia sostenuta da voci. Puntualmente smentita dalla procura di Roma, che l'ha liquidata come «del tutto infondata». L'incidente è clamoroso e segue di un paio di mesi la pubblicazione su repubblica.it della foto del presunto signor Franco, indicato da Massimo Ciancimino come cerniera occulta tra mafia e prima repubblica. Il soggetto centrato da una pioggia di fango debenedettiano non c'entra ovviamente nulla. Lo ricordiamo: è un dirigente di un gruppo automobilistico straniero che, in un giorno qualunque, si è visto colpito dall'accusa infamante di tramare sulle stragi con Provenzano e Riina. La mattina di quel giorno nero ha dovuto ritirare i figli da scuola perché venivano insultati per un errore, e soprattutto per una degenerazione di quel giornalismo militante che s'atteggia a moralizzatore. Sebbene colpisca Berlusconi, che ha tutti gli strumenti per difendersi e ha le spalle larghe, il secondo episodio è assai più grave del primo. Perché quel titolo non solo è smentito duramente dalla procura di Roma, ma persino dalla logica. Ed è quindi lecito chiedersi perché il giornale di De Benedetti abbia voluto forzare al punto una voce per ripetere quella scelta da repubblica.it pur di metterla in quel posto al Cavaliere. Guarda caso a pochi giorni dalla discussione in Aula dei famosi cinque punti su cui il premier gioca il suo futuro politico, e su di esso la fiducia e l'appoggio dei finiani, sensibilissimi ai temi della legalità. Per carità, la credibilità per taluni è un bene da rinfacciare soprattutto al “nemico”, piuttosto che badare alla propria, così come la serietà professionale e altri satelliti del buon giornalismo cui taluni professionisti amano far riferimento nel discettare degli altrui comportamenti. Sarebbe troppo facile e anche un po' meschino, forse, rinfacciare tutto questo oggi. Di certo pubblicare una bufala basata su una voce sul premier eletto dal popolo significa solo pigiare sullo scontro, cedendo ancora sulla mancata verifica e sull'assenza di ragionamento. Nello specifico, l'azione della procura di Roma - che si muove con marcata incisività - segue una trama investigativa sotto gli occhi di tutti. Un interrogatorio di Berlusconi oggi, tra una settimana o un mese, sarebbe assolutamente intempestivo, soprattutto per il calendario investigativo che richiede altri percorsi, proprio per assicurare un recupero di verità indispensabile in un'indagine delicata come questa. E non tanto perché si indaga su Dell'Utri, Verdini & C., quanto perché questa indagine porta a nomi di primissimo piano nel mondo giudiziario italiano. Ed è forse per la prima volta in Italia che pubblici ministeri affrontano gruppi di potere dentro la magistratura, colleghi quindi ben  più importanti, per intenderci, di quel Renato Squillante, allora capo dei gip di Roma, che riempì il medagliere della popolarità e della riconoscenza di Ilda Boccassini. Ma a differenza di allora, questi magistrati non gestiscono l'aspetto mediatico della loro inchiesta e, soprattutto, sanno benissimo che interrogare oggi Berlusconi sarebbe dannoso sotto ogni profilo. Sarebbe inutile per l'inchiesta, prematuro per il processo e catastrofico per il significato unicamente politico che una mossa come questa determinerebbe nella sua lettura. Ecco perché la logica suggeriva un titolo diverso. Ma se scriviamo è perché quel titolo e quella scelta esprimono ben altro. Non una notizia quindi ma un desiderio, non un fatto di cronaca ma quella che appare come un'azione di pressing sulla magistratura che, invece, ancora una volta dovrebbe compiere il suo lavoro senza spettacolarizzazioni e senza essere tirata per la giacca in confronti umilianti. Così l'invocare l'azione disciplinare contro i pubblici ministeri che hanno chiesto i domiciliari per l'indagato che ha iniziato a parlare, è un'altra mossa fuori dal mondo, di propaganda, che non otterrà alcun risultato. Se cadono i presupposti dell'inquinamento delle prove o di reiterazione del reato, il pubblico ministero ha il dovere di chiedere misure più leggere della detenzione in carcere. Lo prevede il codice. Può anche essere giudicato aberrante, ma è così. Deriva dalla concezione del pentimento e dalla legislazione pontificia. Se confessi e mostri pentimento o ravvedimento, se ammetti dei fatti, non inquini più le prove e, intanto che verifico le tue asserzioni, ti mando a casa ai domiciliari. Durante Mani pulite era una catena di montaggio, eretta poi a sistema anche di delazione. Per evitare che si ripeta, i politici dovrebbero prendersela non con i magistrati ma con le norme. Ma per inerzia, pigrizia o forza non coagulano l'iniziativa e la riforma. Così nulla cambia e tutto si ripete. Aspettiamo ancora quelle norme anti corruzione promesse che potrebbero sposarsi con leggi più garantiste per un segno forte di cambiamento, di lotta alla corruzione e tutela del cittadino di fronte agli strabismi giudiziari e le  bulimie investigative. Altrimenti ci ritroveremo sempre allo stesso punto. Immobili. Mentre gli altri vanno avanti.

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