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Strategia della distinzione

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Appunto di Filippo Facci

carlotta mariani
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Prepariamoci al peggio, la normalità legislativa è finita (è finito il governo, in pratica) e siamo alla quiete prima della tempesta elettorale. Nel bicchier d'acqua, di tempeste, già se ne muovono: dalla vacua polemica su una freddura di Giuseppe Ciarrapico («Fini ordini la kippah») alle voci di avviso di garanzia per Renato Schifani (smentita, ma è lo stesso) al tentativo di fare un caso politico di una battuta pedestre di Umberto Bossi (sono porci eccetera) che peraltro è stata pronunciata a Lazzate e non certo alla Camera, dove Di Pietro dava dello «stupratore della democrazia» al Presidente del Consiglio senza che si muovesse foglia. Ma queste, appunto, sono sciocchezze, modeste avvisaglie. Il vero problema è che ogni forza politica, da oggi in poi, declinerà una sola ansia politica e mediatica: farsi notare, differenziarsi per farsi votare o rivotare quando sarà. Con la complicazione che le elezioni - che gli italiani non vogliono - dovranno sembrare assolutamente una colpa altrui: quindi se ci sono bene - è pur sempre un governo che cade, un botta terribile - e se non ci sono bene,  perché così Berlusconi intanto rosolerò mentre tutti quanti - finiani, Mpa di Lombardo, Pd eccetera - avranno tempo e spazio per organizzarsi. Per il resto, la corsa al distinguo non parte oggi: parte ieri. Le posizioni 1)  Il governo e il PdL devono svincolarsi dall'immagine statica in cui molti tendono a ritrarli, peraltro con l'accusa di aver combinato poco. Il Parlamento era fermo da luglio (quindi anche il Governo) e la fase di emergenza legata ai «cinque punti» va a impiantarsi nell'emergenza legislativa che già era dovuta alla crisi economica: la sensazione che Berlusconi proceda impantanato, col freno a mano tirato, è il pericolo maggiore. Da una parte questo, da un'altra i sondaggi che non sorridono (nella consapevolezza che nessun governo, dal 1994, ha mai rivinto le elezioni) e dall'altra ancora la morsa che stringe il Popolo della Libertà, costretto tra forze che hanno sposato la causa del Sud (finiani compresi) e la Lega che presidia il Nord come sappiamo. Risultare paludati a metà strada, nel teatrino romano, non è il massimo dell'appeal elettorale: anche perché un assenza di tono paventa il rischio dell'astensionismo - che alle Regionali ha toccato il record storico - e il Popolo della Libertà lo teme come la morte. 2) I finiani in assoluto hanno necessità di distinguersi e di fare casino: sennò non esistono. Apposta Berlusconi, mercoledì, non li ha neppure citati. Fini sarebbe anche tentato di si attaccarsi alla sua poltrona il più a lungo possibile: sia per governare il calendario legislativo sia per lucidare la propria immagine istituzionale a fronte della campagna sulla casa di Montecarlo, che ormai nessun giornale è disposto a mollare perché è intrigante e porta lettori; la stessa poltrona, d'altro canro, lo ingessa e gli impedisce di comiziare come imporrebbe il nuovo partito: Fini magari potrà dimettersi quando sarà varato ufficialmente - anche se l'hanno ufficiosamente già fatto - ma sin da subito i suoi uomini faranno partire una campagna mediatica che potrà solo rimarcare ogni differenza dal Cavaliere, vera o inventata che sia. Ieri, per dire, Adolfo Urso rilasciava delle interviste che sembravano dei publi-redazionali. Per diversificarsi sarà buona ogni scusa,  a partire da una pretestuosa mozione di sfiducia legata alla battuta di Bossi - già disinnescata, perché si è scusato – oltre a qualsiasi altra sciocchezza che permetta ai finiani di cantare la litania del «dobbiamo valutare», «dipende», «riuniremo il gruppo» e «valuteremo il da farsi» e altre bocchinerie. A complicare le cose c'è il fatto che il «core business» di Fini è il medesimo di Berlusconi da sponde diverse: la giustizia o legalità che sia. Il Cavaliere nel suo discorso non ha citato il tema intercettazioni ma per il resto ha messo al fuoco abbastanza carne da arrostire tutte le legislature dal 1994 a oggi: uso politico della giustizia, squilibrio tra ordini dello Stato, Lodo Alfano, riforma e sdoppiamento del Consiglio Superiore della Magistratura, separazione delle carriere, punibilità dei magistrati, in sostanza riforme istituzionali-costituzionali e insomma non sciocchezzuole, ma roba che ha fatto cadere governi e ministri negli ultimi 18 anni. Forse ora sarà più chiaro, dalle parti del governo, perché certe riforme andassero fatte a inizio legislatura e non rinviate sine die. L'opposizione 3) Che l'opposizione abbia necessità di distinguersi da una parte è fisiologico, dall'altra anche il portinaio del vostro caseggiato ormai disserta sulla «crisi di identità» del Partito democratico, forza politica che non sa che cosa vuole ma ha l'urgenza di comunicarlo. Persino Bersani, mercoledì, ha dovuto ammettere che «anche noi abbiamo bisogno di un progetto nuovo», ma nell'attesa ha fatto prevalere un tono da comizio (zeppo di distinguo antiberlusconiani, of course) tacendo però sul comiziaccio di Antonio Di Pietro, che manca solo che in Parlamento si metta a sparare. Sul fatto poi che forze politiche come l'Idv siano già in campagna elettorale non c'è neanche da soffermarsi: non lo sono da oggi, ma da qualche anno. In tutto questo marasma, poi, dovremmo anche annoverare la necessità di emergere che denoterà l'Udc: e non ci sarà da ridere solo perché le risate le abbiamo già consumate tutte.

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