La targa che sbugiarda i complottisti

Roberto Amaglio

"Eterna riconoscenza". C’è scritto proprio così sulla targa in ottone regalata dai fratelli dell’allora capo del Pool di Mani pulite al caposcorta Alessandro M.: "Antonio, Mario, Enzo e Paolo D’Ambrosio esprimono ad Alessandro eterna riconoscenza per quanto ha fatto con grande professionalità a tutela della vita del fratello Gerardo". Una frase che non lascia spazio ai dubbi. La targa contraddice quanto oggi Gerardo D’Ambrosio sostiene, offre una versione diametralmente opposta a quello che l’ex toga asserisce e cioè  di non aver mai creduto che Alessandro M. gli salvò la vita il 14 aprile del 1994. Un’affermazione micidiale che ipoteca a cascata anche l’agguato a Maurizio Belpietro sventato una settimana fa sempre da Alessandro M. passato da 8 anni a capo degli angeli custodi del direttore di Libero. La targa è lì: Belpietro l’ha ricevuta in dono dal suo angelo custode dopo i veleni, anzi Repubblica la chiamerebbe la "macchina del fango" che si è messa in azione per seppellire un episodio inquietante contro un giornalista moderato. Belpietro decide di mostrarla ai milioni di telespettatori che seguono Annozero nella speranza di ristabilire la verità, di ricordare come all’epoca tutti sostenevano questo agente gettato ora nella melma dei sospetti. Sospetti che sono stati amplificati ribaltando la verità dei fatti. È  un fatto, ad esempio, che dopo essere intervenuto salvando la vita a D’Ambrosio, prima dell’estate del 1995, l’agente si ritrovò sottocasa incisa sul cofano della sua auto la scritta "Amico del comunista". Qualche notte dopo l’auto venne rubata. È anche un fatto che per le minacce ricevute Alessandro M. venne trasferito alla squadra mobile di Milano. Passa qualche tempo e nell’agosto del 1997 grazie ad "accurate indagini" l’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano firma una lode per il giovane agente. È riuscito a far arrestare due albanesi autori di un omicidio. Insomma, non sembra proprio il profilo di uno psicopatico che per motivi ignoti si mette a sparare come un folle nelle scale di un palazzo fingendo di dare la caccia a un attentatore inventato. Ma torniamo a D’Ambrosio, a quando Alessandro M. lo seguiva passo dopo passo. A quando l’allora magistrato lo indicava spesso come suo «figlio» vista l’unione che la scorta aveva determinato tra i due. L’apice avvenne a Radda in Chianti, al matrimonio della figlia di D’Ambrosio. Il magistrato emozionato per l’evento presentava agli invitati il caposcorta come «uno di famiglia» quando in realtà l’agente era lì in servizio. E così in via Fatebenefratelli le parole di D’Ambrosio hanno lasciato tutti di sale. Soprattutto i ragazzi delle scorte. La targa, le segnalazioni alla Dia, i riconoscimenti di fronte a tutti, la preziosa cravatta di Marinella slacciata e annodata al collo di Alessandro M... Si potrà obiettare: i dubbi non condizionarono il rapporto personale o, ancora, D’Ambrosio notò  le presunte contraddizioni solo in un m omento successivo. Ma se così è stato perché non le ha segnalate all’autorità giudiziaria? E se l’ha fatto e non hanno sortito effetto non ritiene forse che fossero non fondate su elementi consistenti? Ancora e soprattutto perché questi dubbi emergono oggi e non all’epoca? Perché D’Ambrosio ha taciuto per 16 lunghi anni, nascondendo la storia o storiella che quel caposcorta ci prese tutti per il naso? Anche perché all’epoca le cose andarono in modo assai diverso. Alla fine passò l’idea che il tentativo di far fuori D’Ambrosio fu messo in pista addirittura dalla Cia, come ha ricordato con efficacia Filippo Facci giovedì su queste colonne. Insomma, l’intelligence americana che complottava contro gli alfieri di Mani pulite. Una spy story per amanti del genere. E in Italia, di certo, non mancano. Anzi. Quindi per ricapitolare, ieri gli 007 americani, oggi una bufala architettata dal caposcorta matto impunito, domani chissà. L’ipermercato della verità su misura è aperto 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. La porta è spalancata, basta accomodarsi. Entrare, comprare uscire prego. Sul terreno da vera «macchina del fango», per ripeterla ancora con le parole dei  “dotti”  di Repubblica, lascia vittime di ordini diversi. L’onorabilità di un agente di polizia, anello debole per annullare l’allarme sociale di quanto avvenuto, indebolire la credibilità e l’immagine del direttore di Libero. I carnefici non esistono, le vittime diventano loro megalomani. Il procedimento del pubblico ministero Grazia Pradella è stato aperto per tentato omicidio, si indaga quindi sulla tentata uccisione del caposcorta ma nessuno se ne accorge. Anzi è lui il colpevole. A questo ragionamento qualcuno obietta che «le telecamere non hanno ripreso nulla», insomma mancando le prove, si dimostra che Alessandro M. ha inventato. Un percorso tortuoso che non tiene conto della statistica: addirittura metà degli omicidi in Italia rimane impunito, oltre il 60% delle rapine, oltre il 90% dei furti. Non si trovano prove, testimoni. Con o senza telecamere.