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Telekom Serbia

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Il depistaggio sulle tangenti favorì la sinistra. Di Maurizio Belpietro

carlotta mariani
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Quando le cose sono chiare servono poche parole per descriverle, quando invece sono ingarbugliate o le si vuole ingarbugliare ne servono molte di più. Sarà per questo che Giuseppe D'Avanzo  non riesce mai a scrivere un articolo di modica quantità, ma deve ogni volta occupare paginate intere di Repubblica? Probabile. Di sicuro questa è la ragione per cui anche ieri ha dovuto vergare quasi 300 righe nel tentativo di dimostrare l'indimostrabile e cioè di non avere avuto un ruolo chiave nell'affare Telekom Serbia. Vediamo di riepilogare. L'inviato del quotidiano progressista prova a sostenere che il caso dell'azienda comprata da Milosevic fu la prima operazione della macchina berlusconiana del fango. La realtà è molto diversa, perché quella vicenda non partì dal Giornale di proprietà del presidente del Consiglio ma dalla Repubblica. Chi lo sostiene? Il Cavaliere, Bonaiuti oppure io? No. Il giudice che si occupò della vicenda, ovvero il gip Francesco Gianfrotta, il quale cita espressamente Giuseppe D'Avanzo e Carlo Bonini. Perché Repubblica raccontò di tangenti pagate da Telecom per acquistare una quota di minoranza nella società dei telefoni di Belgrado? Perché il quotidiano progressista voleva destabilizzare l'azienda appena comprata da Roberto Colaninno e soci della Razza padana con l'appoggio di una parte della sinistra (a benedire l'operazione era stato l'allora presidente del Consiglio Massimo D'Alema). Chi lancia una simile accusa? Berlusconi, Cicchitto oppure io? No. Lo stesso Colaninno, che in Primo tempo, il libro scritto a quattro mani con il vicedirettore dell'Unità Rinaldo Gianola, lo fa chiaramente intendere, lasciando capire che il padrone di Repubblica,  Carlo De Benedetti, fu ben lieto della campagna condotta dal suo giornale, perché si sentiva estromesso dal gioco e dunque non gli dispiaceva affatto vedere gli ex compagni di scorribande in difficoltà. Il problema è che una volta lanciato il sasso e nascosta la mano, a Repubblica sfuggì il controllo dell'operazione. I quotidiani presero a occuparsi della cosa e tra questi il Giornale, il quale cominciò a domandarsi perché una società controllata dallo Stato avesse comprato quote di minoranza in un'azienda di un Paese ad alto rischio, dove un dittatore comunista e sanguinario si era appena reso responsabile di una feroce pulizia etnica. Iniziò a venir fuori che l'ambasciatore a Belgrado aveva sconsigliato vivamente l'acquisizione, informando il governo. I cui membri però negarono di essere mai stati chiamati a decidere sulla faccenda. Quale autorità politica autorizzò l'affare, cominciò a domandarsi il Giornale, e a cosa servirono i soldi incassati da Milosevic? Una lettera di Fausto Biloslavo, qui a fianco, ricorda come il dittatore abbia impiegato il denaro, finanziando le truppe e le fabbriche di carri armati che poi furono impiegati nel massacro nel Kossovo. Arrivati a questo punto della vicenda, che lambì oltre a Palazzo Chigi il ministero degli Esteri e quello dell'Economia, ecco spuntare Igor Marini, il supertestimone, il quale prima ci provò senza grande successo proprio con il Giornale e successivamente con la Commissione parlamentare d'inchiesta costituita per indagare sui fatti e infine con la magistratura. Marini raccontò di tangenti pagate a Mortadella, Ranocchio e Cicogna, ovvero Prodi, Dini e Fassino. Commissione e pm, in attesa di verifiche, presero per buone le frasi di Marini. La Procura addirittura dispose una serie di arresti sulla base delle sue accuse. Chi però insinuò i primi dubbi sulla deposizione? De Bendetti, Ezio Mauro o Giuseppe D'Avanzo? No. Il sottoscritto. Fui io a scrivere a pochi giorni dalla deposizione che il supertestimone non mi convinceva e che dunque Prodi, Dini e Fassino erano da ritenere innocenti fino a prova contraria. I lettori mi scuseranno, ma fu sempre il sottoscritto a domandarsi chi, contro i pareri dei vertici aziendali, avesse autorizzato un'operazione che di fatto finanziò Milosevic e la guerra in Kossovo. Il Giornale nel 2002 fece dunque le prove generali di funzionamento della macchina del fango? No, fece semplicemente il suo dovere. Chi lo sostiene? Feltri, Sallusti o Belpietro? Assolutamente no: a scriverlo sono i giudici, i quali hanno assolto me e i colleghi che si occuparono del caso in diversi giudizi intentati da chi si sentì chiamato in causa.  Scrivono i magistrati della corte d'Appello di Catania, cui si rivolse Francesco Rutelli, uno dei politici citati da Marini.  «Non può non osservarsi come la narrazione dei fatti sia proceduta con molta cautela e con vari passaggi  espressi in forma dubitativa, segno che gli autori dell'articolo e il direttore de il Giornale hanno inteso mantenere un atteggiamento di palese distanza e di non supina adesione rispetto a quanto era stato propalato dal Marini». E con ciò assolvono giornalisti e direttore «per aver agito nel legittimo e corretto esercizio del diritto di cronaca». Si ebbe mai una risposta ai quesiti sollevati dal Giornale sulle responsabilità politiche di quell'operazione? No. Il depistaggio di Marini mandò tutti fuori strada e la vicenda rimase uno dei tanti misteri di questo Paese. Le rivelazioni del supertestimone si tramutarono in un boomerang per la Commissione parlamentare d'indagine, il cui operato fu demolito anche grazie al contributo fondamentale di  Giuseppe D'Avanzo e di Repubblica. Chi dunque manovra la macchina del fango? Per questa risposta, cari lettori, non credo serva il mio aiuto, potete far da soli.

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