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Gianfranco, la destra che vorrebbe lui. Ovvero, il libro nero del disastro

Esce "L'Italia che vorrei', manifesto del leader Fli. Dagli immigrati alla giustizia, è fango sul Cav / BORGONOVO

Giulio Bucchi
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Il risultato è una pallida imitazione di Silvio Berlusconi. E l'affermazione vale sia per il titolo che per l'autore. Il nuovo libro di Gianfranco Fini si chiama L'Italia che vorrei e non si può non pensare al celebre L'Italia che ho in mente, firmato anni fa dal Cavaliere.  L'uscita del volume è prevista per marzo, ma alcune copie circolavano già al congresso costitutivo di Futuro e Libertà. Dopo l'operazione orchestrata dalla Rizzoli di Paolo Mieli - la quale  diede alle stampe il manifesto finiano Il futuro della libertà - ad assumersi l'arduo compito di pubblicare il tomo (circa 300 pagine) è l'editore Rubbettino, un baluardo della cultura liberale italiana.  Va notato che Rubbettino è anche l'editore  di Alessandro Campi  già spin doctor del presidente della Camera attualmente in fase di rottura col partito. L'operazione è molto ben orchestrata: copertina con i colori sociali di Fli, prefazione  di Giuliano Amato (che è tutto un programma), introduzione dello stesso Fini che distingue da vero professionista tra politics e policies e, almeno così dice, tra teoria e prassi della politica.   Il problema sono i contenuti. Se è vero -  come spiega il  nostro direttore Maurizio Belpietro - che il gruppuscolo di Futuro e libertà è lanciato verso il disastro, beh allora questo volume è il libro nero della disfatta.    Dal via libera all'immigrazione fino al tifo per le procure, ci sono tutti i punti salienti del piano del numero uno di Montecitorio per liberarsi del suo principale antagonista: il Cavaliere.  Ovviamente Silvio non è mai nominato direttamente, ma alcuni passaggi del testo non possono che essere riferiti a lui. La presenza del presidente del Consiglio si avverte in ogni pagina, a cominciare dall'introduzione, confezionata per l'occasione (il resto del libro consiste nella riscrittura degli interventi di Fini in vari incontri pubblici).   «La disaffezione degli italiani verso il proprio Paese», si legge dipende anche «dal giudizio negativo che gli italiani danno della qualità e del funzionamento delle politiche pubbliche sul territorio e dell'incapacità delle classi dirigenti di decidere in funzione dell'interesse generale». Chissà chi ha in mente Fini quando parla di “classi dirigenti”... «Va detto, infatti, con chiarezza che tra le responsabilità della classe dirigente c'è anche quella di aver smarrito quel senso della dignità e del dovere che dovrebbe essere proprio di chi è chiamato a ricoprire cariche pubbliche: valori “dal sapore antico”, ma sempre straordinariamente attuali, che, se vissuti quotidianamente, consentono alla politica di riacquistare una piena “credibilità”». Gianfranco afferma di partire da un presupposto «etico prima che politico». E a tratti pare autobiografico, sembra che il famoso «Che fai, mi cacci?» ce l'abbia ancora sul gozzo. Ecco la mazzata all'esecutivo: «Un governo che si basa legittimamente sul potere costituito e sui voti è, dunque, un governo autenticamente democratico se sa anche riconoscere le ragioni e le argomentazioni degli altri. Solo una visione mitologica della democrazia può indurre a ritenere che la funzione di governo si traduca automaticamente in un'agenda legislativa predefinita e a senso unico in cui il potere esecutivo, soprattutto con il ricorso all'uso distorto della decretazione d'urgenza, tende a limitare, o peggio ancora, a soffocare il libero dibattito parlamentare».   Poi tocca alle idee. Fini si schiera dalla parte  dei magistrati che «nell'attuale contesto istituzionale» sono «più esposti che in passato ai giudizi e alle critiche e, talvolta, anche ad attacchi del tutto privi di fondamento». Dice la sua sul federalismo, che non può «essere concepito come uno “slogan”, come una sorta di “manifesto” privo di pesi e contrappesi» (e qui ce l'ha con la Lega). Anzi, deve assicurare la perequazione «fra i territori dotati di diverse capacità fiscali», deve essere organizzato sulla base di quello che Napolitano ha chiamato «il patto che ci lega», da «declinare necessariamente in senso solidaristico». Quando tocca all'immigrazione, la prosa si fa immaginifica: «Fin dalla più remota preistoria, intere popolazioni hanno migrato in cerca di nuovi terreni di caccia, di pascoli migliori e di terre più fertili da porre a coltura». Motivo per cui esiste un «diritto naturale all'accoglienza» e sulla concessione alla cittadinanza alle seconde generazioni di immigrati bisogna essere aperti. Tra una citazione di John Rawls e una di Piero Calamandrei, il nucleo centrale del Fini-pensiero è esposto nel dettaglio: un attacco frontale all'attuale centrodestra. Mentre la procura di Milano prende di mira Silvio, Gianfranco difende le toghe. Mentre sono in arrivo barconi di immigrati, apre alle seconde generazioni. Mentre la Lega in crescita si batte per il federalismo fiscale, lui la massacra in nome della solidarietà. Ecco il “Manifesto Sfascista”, a marzo in libreria. di Francesco Borgonovo

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