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La super coppia Bindi-Franceschini. Più parlano più il Pd sprofonda

Rosy e Dario da una trasmissione tv all'altra straparlano contro il Cavaliere. Ma fanno soltanto danni / PANSA

Andrea Tempestini
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La premiata ditta Bindi & Franceschini non è roba da poco. Guai a prenderla sottogamba. Rosy è la presidente del Partito democratico. Dario il capogruppo del Pd a Montecitorio. Nei partiti bene organizzati vige una regola: chi sta in alto parla soltanto nelle occasioni importanti, chi sta in basso può straparlare e sfogarsi. Ma nel Pd la norma è capovolta.  La Bindi è diventata una parolaia devastante. Bianca o tricolore che sia, ha cancellato il ricordo del Parolaio rosso, Fausto Bertinotti, già leader di Rifondazione comunista. È sufficiente accendere la tivù per vederla e sentirla concionare a macchinetta. Di recente, è comparsa all'Infedele, a Ballarò, ad Annozero, a Otto e mezzo. Sempre con la solita grinta pomposa. E spesso traslocando da un talk show all'altro nell'arco di una sola serata. Una sera stava nel parlatorio della Gruber e quando la trasmissione era appena finita, la si vide alzarsi di scatto, raccattare la borsa e correre via. Per andare  dove? A Ballarò, attesa con trepidazione dal compagno Floris. Giovedì scorso, 24 febbraio, stava di nuovo sulla 7, a Otto e mezzo. La mattina successiva, quella di venerdì 25 febbraio, eccola ancora sulla 7, questa volta a Omnibus.  Il caso della Bindi sempre in tivù potrebbe innescare un dibattito sul declino dei talk show politici. E a proposito dello scarso professionismo di chi li organizza, a cominciare dai responsabili delle reti. In particolare della 7, ormai diventata un museo ambulante delle cere. Lì si vedono di continuo le stesse facce. E ogni volta si ascoltano le medesime litanie.  La litania della Bindi la conosciamo a memoria. Lei ripete sempre un concetto solo. Qualunque cosa accada in Italia e nel mondo, la colpa è del Caimano, ossia del premier Silvio Berlusconi. Persino quando il Cavaliere si vide spaccare la faccia dal mattoide Massimo Tartaglia, Rosy liquidò la faccenda spiegando quello che adesso ricorderò. La domenica 13 dicembre 2009, la Rosy se ne stava nella sua casa di Sinalunga, in provincia di Siena. Qui la scovò un redattore della Stampa, Carlo Bertini, e le chiese che cosa pensasse dell'attentato. E la Bindi sparò: «Sia ben chiaro che do la mia solidarietà al presidente del Consiglio. Resta il fatto che tra gli artefici di questo clima c'è anche Berlusconi. Lui non può sentirsi la vittima. Certi gesti qualche volta sono spiegabili». INGENUA AMBIZIOSA In questi giorni la Rosy è apparsa molto eccitata, poiché Nichi Vendola l'ha proposta come candidata premier dell'ammucchiata di centro-sinistra. Da signorina  pudica, lei ha sostenuto di non esserne degna. Ma sotto sotto, una speranziella la nutre. Forse non ha letto con attenzione il retroscena rivelato da Maria Teresa Meli sul Corriere della sera del 21 febbraio. Qui si spiegava che la mossa di Vendola era stata suggerita dal Parolaio Rosso, un Bertinotti per nulla dormiente. E con uno scopo preciso: spiazzare i dirigenti democratici e farli litigare fra di loro. Un'ingenua ambiziosa la Bindi? Non lo so. Ma di certo l'altro socio della ditta, il Franceschini, forma con lei una tragica accoppiata. Confesso di non riuscire ad accanirmi su Dario. Gli devo un capitolo di uno dei miei libri sulla guerra civile. Con la storia del nonno materno e della madre bambina, dal nome incantevole: Gardenia. Inoltre lo considero più sfortunato che inetto. La sua sfortuna cominciò quando Walter Veltroni divenne segretario del Pd e scelse come vice Dario. Era l'ottobre 2007 e iniziò per entrambi un ciclo disgraziato. La sconfitta nelle politiche del 2008, poi alle comunali di Roma, quindi alle regionali in Abruzzo e in Sardegna. Nel febbraio 2009, dopo aver letto un sondaggio della Swg che dava il Pd in caduta libera al 22 per cento, mentre il diabolico Di Pietro stava al 14 per cento, Walter si dimise da segretario del Pd. Al suo posto venne eletto Dario. Con pochi voti e molti avversari interni. Matteo Renzi, oggi sindaco di Firenze, fu spietato. Disse che a guidare il partito era stato scelto «il vicedisastro di Veltroni». Senza volerlo, Franceschini fece di tutto per confermare quella cattiveria. Una delle sue prime proposte, nel marzo 2009, fu di chiedere una tassa sui ricchi. Vale a dire sui contribuenti sopra i 120mila euro. Lo scopo? «Aiutare le famiglie povere». Poi Dario perse le elezioni europee del giugno 2009. Si dimise e, al suo posto, arrivò Pierluigi Bersani, che gli concesse la poltrona di capogruppo alla Camera. Da quel momento, Franceschini prese una deriva stramba. Forse cercava una rivincita d'immagine. Adesso ha ricominciato a esternare. E qualche giorno fa, di fronte al caos libico, ha morsicato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, colpevole di aver sostenuto che la democrazia non si può esportare. DIMENTICARE LA SERBIA Dario ha replicato che il centro-destra aveva appoggiato Bush nell'invasione dell'Iraq. Dimenticando che anche il suo centro-sinistra aveva fatto la guerra contro un altro dittatore: il serbo Slobodan Milosevic. Era il marzo 1999 e l'Italia intervenne, insieme agli altri paesi della Nato, con gli aerei da bombardamento. Il premier era Massimo D'Alema che per questo si prese gli insulti di Vendola: «Grevemente atlantico, cinicamente spoglio di dolore, con una spocchia da statista neofita, un tipo da “Porci con le bombe”». A Franceschini bisogna regalare un libro di storia. Alla Bindi un silenziatore. E a Bersani un consiglio: cerchi di convincerli a restare zitti. Fanno soltanto dei danni al loro partito. Non saranno mica una quinta colonna dell'astuto Caimano? di Giampaolo Pansa

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