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Ai pm la gente piace soltanto se fa il tifo per loro

Documento di protesta dei giudici di Milano: non digeriscono che la piazza non stia con loro ma col Cav / FACCI

Andrea Tempestini
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In vent'anni di manifestazioni pro-magistrati non c'era mai stato problema, ora però il corteo non simpatizzava apertamente per le toghe ed ecco che Livia Pomodoro e Giuseppe Tarantola, rispettivamente presidenti del Tribunale e della Corte d'Appello di Milano, hanno vergato una circolare a uso interno e hanno parlato di «fastidio» e di «intralcio» all'attività giudiziaria. L'hanno fatto con un comunicato stupefacente - mai visto niente del genere in tanti anni - e vale la pena di soppesarlo parola per parola. Era diretto «a tutti i magistrati e a tutto il personale amministrativo» e, per i cultori del magistratese, ecco l'incipit: «Oggetto: manifestazione odierna al Palazzo di Giustizia in data odierna. La situazione odierna di manifestazione esterna al Palazzo di Giustizia...». Limitiamoci a dire, qui, che se le ripetizioni fossero reato potrebbero dargli la continuazione. INTRALCIO E DISAGIO Ma entriamo nel vivo: «La situazione odierna di manifestazione esterna al Palazzo di Giustizia è per tutti noi fastidiosa e costituisce obiettivo intralcio alla normale attività giudiziaria». E perché? In che modo? Non si dice, si prosegue: «Intendiamo protestare con le autorità competenti al fine di evitare il disagio per coloro che quotidianamente frequentano il Palazzo di Giustizia e, ovviamente, per assicurare la dovuta dignità a coloro che amministrano la giustizia a Milano». Interessante: di che disagio si parla? Problemi di parcheggio? Di accesso? C'era coda al bar? Non è chiaro neanche questo, par di capire tuttavia che il «disagio» e la lesa «dignità» siano consistiti in pratica nella manifestazione di per sé. È strano, perché tutto si è svolto rigorosamente all'esterno del palazzaccio di Giustizia: niente a che vedere, per capirci, con la ressa e le telecamere del mitico «processo Cusani» di cui proprio Giuseppe Tarantola, l'attuale presidente della Corte d'Appello che ha firmato la missiva, fu presidente nel 1993-1994: fu lui il giudice che diede tutti i permessi del caso. Ieri invece ha scritto questa circolare e l'ha conclusa così: «Siamo certi, comunque, che da parte Vostra sarà assicurata per la giornata odierna (ridaje, ndr)  l'attività ordinaria con la massima serenità e con la consueta professionalità». Uno scritto a uso interno, in sintesi, di cui non si comprende il preciso significato se non nel palesare «fastidio» col proposito che in futuro manifestazioni del genere non ce ne facciano più. Dopo lustri e lustri. Eppure, a guardar bene, fuori dal palazzo di Giustizia i gruppi di manifestanti dicevano entrambi che vogliono una legge e una giustizia uguale per tutti, e inneggiavano entrambi a una «magistratura che lavora per il bene dell'Italia». Entrambi chi? Entrambi, s'intende, gli schieramenti che ieri mattina hanno avuto voglia di manifestare davanti al Tribunale, accomunati da molte cose ma da una in particolare: erano pochi. Erano in pochi, anche se i berluscones erano più numerosi del solito, mentre gli anti-Cav erano praticamente inesistenti: c'era solo un drappello di poveracci capitanati da Piero Ricca, il disadattato che urlò «buffone» a Berlusconi. Questo mentre qualche cronista, sempre ieri, si sbatteva per portare a casa l'articolo di colore, tipo «come cambiano i manifestanti a quasi vent'anni da Mani pulite»: eppure il dato era uno solo, cioè che la gente in sostanza era rimasta casa o a lavorare, perché gli italiani sono sì bipolarizzati ma al tempo stesso, questa la morale, indisposti a scendere per strada a replicare l'eterna disfida sulla giustizia. Anche perché non è una disfida sulla giustizia,  ma su Berlusconi. Interessa Berlusconi, non la giustizia intesa come strumento per fregarlo o per salvarlo. Interessa che lui continui a esserci o che sparisca. Eccolo il dato, che è sempre quello. VENT'ANNI FA Vent'anni fa, invece, interessava solo che sparisse non lui, ma un'intera classe politica. E, ai tempi, di bipolarismi non ce n'erano: pensieri e manifestazioni erano a senso unico. Al di là di qualche nota coreografica di oggi, anzi «odierna», - tipo la precisione berlusconiana, i palloncini, i cappellini, i cartelli e gli stendardi puliti e azzimati - la differenza abissale è che il Paese e le manifestazioni, ai tempi, erano davvero una cosa sola e il mono-polarismo delle manette faceva spavento: la gente pensava che la crisi e la disoccupazione fossero colpa delle tangenti, e si illudeva che il rito ambrosiano potesse fare davvero piazza pulita. Tempi diversi, appunto. Nella primavera 1993, mentre la gente sfilava davanti al Palazzaccio, un sondaggio del Giornale rilevava che 63 milanesi su 100 giudicavano «una cosa giusta» gli schiavettoni ai polsi del democristiano Enzo Carra, oggi parlamentare dell'Unione di Centro. Il professor Gianfranco Miglio, già ideologo della Lega di Bossi, diceva che «Il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola» e non succedeva niente. Nel tremulo emiciclo di Montecitorio si facevano largo personaggi come il macellaio brianzolo Luca Oreste Orsenigo, un deputato leghista che agitò un cappio in aula e provocò il sorriso gengivale della futura presidente della Camera Irene Pivetti. Ecco: quel giorno, stesso giorno in cui un deputato della Repubblica agitava una forca, davanti al Palazzaccio di giustizia milanese sfilava una manifestazione come in teoria è successo ieri: la differenza è che un cartello, allora, recitava testuale «Le manette non bastano, ci vuole il cappio al collo» ed era un corteo curiosamente misto, ma unico: La Rete di Leoluca Orlando coi repubblicani di La Malfa, i verdi coi leghisti, i pidiessini accanto ai missini (tra questi Riccardo De Corato, che c'era anche ieri) più tanta e cosiddetta «società civile». Antonio Di Pietro non auspicava arresti, ma li faceva: e un sondaggio di quei giorni gli attribuiva il 90 per cento della fiducia.  Ma, soprattutto, nessuna circolare interna al Tribunale palesava «fastidio» e parlava di «intralcio» all'attività giudiziaria.   di Filippo Facci

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