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Strega, leoni di carta ed editori-iene. Diamo al premio ciò che merita: il rogo

Presentati i 12 finalisti della kermesse letteraria: fino al 7 luglio sarà il solito giochino. Meglio finirlo / BORGONOVO

Giulio Bucchi
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Ieri a Benevento sono stati presentati i dodici finalisti del Premio Strega edizione 2011. Il prossimo 15 giugno, come in una puntata di “Giochi senza frontiere”, ne verranno eliminati sette. Resterà la famigerata cinquina, il novero degli eletti che per alcune settimane si contenderanno a suon di interviste sui giornali l'ambìto riconoscimento letterario. Dunque prepariamoci, da qui al 7 luglio - giorno in cui verrà finalmente attribuita la coppa, consistente in un assegno e in una bottiglia di giallognolo liquore marca Strega - a farci tartassare da ampi articoli di retroscena che illustrano le manovre delle case editrici per garantirsi il successo. Predisponiamoci a subire l'ennesima polemica del piccolo editore di turno che lamenta lo strapotere dei grandi marchi, salvo poi ripresentarsi puntualmente alla corte per scroccare uno strapuntino di visibilità. È accaduto a Raffaello Avanzini, patron di Newton Compton (che tanto piccola non è). Lo scorso anno montò una campagna feroce, si lamentava di essere stato eliminato per favorire i dominatori del mercato, strepitò inviando lettere a chiunque, minacciando guerriglia vietnamita. Quest'anno, buono buono, si è rimesso in fila per partecipare. Con la perfidia di cui sono capaci solo i burocrati e gli squali da Parlamento, lo hanno eliminato di nuovo.   Al lettore che fosse, per sua fortuna, ignaro del funzionamento di tale baraonda mediatico-culturale è opportuno spiegare di che si tratti. Ogni anno un comitato composto dai cosiddetti “Amici della domenica” - così chiamati per indicarne la scarsa professionalità: come esistono i ciclisti della domenica, troviamo anche i lettori della domenica, non meno pericolosi dei primi e tuttavia meno invasivi per la viabilità - indica una serie di libri meritevoli di attenzione. Ciascun romanzo deve essere selezionato da almeno due amici. Fino a poco tempo fa, la selezione avveniva con gli stessi metodi utilizzati per le elezioni a Napoli: nel computo degli amici erano inseriti anche i morti. Successivamente, per magnanimo intervento degli organizzatori della Fondazione Bellonci, ai defunti è stato risparmiato l'immeritato purgatorio della partecipazione alla kermesse.   In realtà, essendo i votanti completamenti ignari del contenuto dei testi, essi esprimono per la gran parte giudizi basati sulle indicazioni delle case editrici. Sembra di stare a un congresso della Dc: i mondadoriani voteranno l'uomo indicato da Mondadori, i rizzoliani quello spinto da Rcs. Esistono poi le liste civetta. Succede per esempio che Mondadori dichiari solennemente: quest'anno, per sportività, non ci presenteremo. In realtà partecipano lo stesso, ma con il marchio Einaudi, sul quale vengono convogliati i voti. Accadde così due anni fa: finì che vinse Tiziano Scarpa, pubblicato dallo Struzzo, con il romanzo Stabat Mater. Fu una scena atroce: il favorito infatti era Antonio Scurati, pubblicato da Bompiani (cioè Rcs). Costui, come qualsiasi partito d'opposizione che si rispetti, s'era presentato come il grande nemico delle lobby di potere dell'editoria, una sorta di Nichi Vendola della narrativa. Era così nemico delle lobby, il professor Scurati, che si fece sponsorizzare alla competizione da Umberto Eco e Angelo Guglielmi, due intellos di prim'ordine i quali pubblicano entrambi per Bompiani, cioè Rcs, cioè il suo editore. Era così nemico delle lobby, Scurati, che si fece spalleggiare, sul Corriere della Sera da Giulio Lattanzi, direttore generale di Rcs. Riepilogo: Antonio Scurati, nemico delle consorterie, ha presentato un libro edito da Bompiani (cioè Rcs), indicato da due autori Bompiani (cioè Rcs), supportato da Giulio Lattanzi (cioè Rcs) sul Corriere (edito da Rcs). Niente male. Il fatto, dicevamo, è che in realtà tutta la gara si riduce a una sfida fra Rizzoli e Mondadori, le quali da anni si spartiscono il bottino quantificabile in qualche migliaio di copie vendute in più grazie all'apposita fascetta “Vincitore del Premio Strega”. Gli scrittori, in sostanza, fanno tutta questa fatica per finire sugli scaffali dell'Autogrill e alla Coop, vicino al salame di Felino e alla mortadella Veroni.  Persino Aurelio Picca, il romanziere che gira in Jaguar, qualche settimana fa ha pianto come una fontana perché Rcs non spingerà il suo libro nella tenzone, preferendogli il volume di Edoardo Nesi edito da Bompiani: i leoni di carta diventano mici al solo annusare il profumo del successo, salvo poi mutarsi in iene se la ribalta gli viene negata. Basta scorrere l'albo dei trionfatori per rendersi conto che non c'è partita:  nel 1996 vince Alessandro Barbero (Mondadori). L'anno successivo Claudio Magris (Garzanti, ma era Claudio Magris, uno che attira premi come una calamita poiché tutti si aspettano che prima o poi gli diano il Nobel, al quale è invano candidato da secoli). 1998, Enzo Siciliano (Mondadori). 1999, Dacia Maraini (Rizzoli). L'anno dopo, Ernesto Ferrero (Einaudi, quindi Mondadori). Poi, doppietta dell'Arnoldo editore: 2001 Domenico Starnone (Einaudi), 2002 Margaret Mazzantini (Mondadori). Nel 2003, ritorna Rizzoli con Melania Mazzucco. L'anno dopo, Ugo Riccarelli (Mondadori). Breve intermezzo con Maurizio Maggiani per Feltrinelli nel 2005 (ma si erano distratti). Ristabilito l'ordine, passano dodici mesi e vince Sandro Veronesi (Bompiani, cioè Rcs). Poi inizia il dominio mondadoriano, tanto che ormai la kermesse è stata ribattezzata Premio Segrate. Il primo a sancire lo strapotere è Niccolò Ammaniti, nel 2007. L'anno successivo, lo strafavorito è Ermanno Rea, signore elegante di smisurate simpatie antiberlusconiane. Egli si aspetta la vittoria, ne è certo, intervistato dal sottoscritto si schermisce ma parla ormai con la corona d'alloro in testa. Ed ecco  lo sgarbo supremo: quando sul palco viene annunciata la vittoria dell'esordiente e futuro bestsellerista Paolo Giordano (Mondadori) - un ragazzetto -  Ermanno cede in diretta, gli si spezza il cuore e gli si appannano gli occhi. È stordito: un uomo distinto non lo si tratta così. Nel 2009 tocca a Scarpa, appunto. Ancora una volta, Rcs è convinta di spuntarla. Scurati ce la mette tutta, arriva quasi a pretendere il voto dall'estero, minaccia di far ricontare le schede come Al Gore, grida al complotto. Quando perde, è furibondo. La serata, come al solito, va in diretta sulla Rai. Il presentatore gli si avvicina, lo intervista  per secondo e lui già s'indigna: ma perché mi chiamate ora, è già tutto stabilito? Ah, le lobby, che brutte bestie. Scurati verrà rintracciato il giorno successivo, con la barba lunga e i capelli scarmigliati, in procinto di gettarsi nel Tevere.  Nel 2010 ha vinto Pennacchi (Mondadori). Su quest'anno non ci sbilanciamo. Ormai che il bipolarismo editoriale si è affermato con una legge peggiore del Porcellum, tutto si gioca sul filo del rasoio. L'unico vero obiettivo dello Strega, infatti, è trasformare - più di quanto non lo siano già - gli scrittori in politici. Tutti, dal più aristocratico al più arrabbiato con la società, quando vengono insigniti del titolo diventano agnellini, ringraziano, si fanno comprare con dolcezza e passione. Guardate Alberto Asor Rosa, professore che auspica il golpe contro Berlusconi: da bravo amico della domenica ha segnalato il romanzo Ternitti di Mario Desiati, edito dalla berlusconiana Mondadori. Non c'è niente di meglio, per normalizzare un autore e ricordargli la bellezza delle mollezze borghesi, che farlo partecipare allo Strega. Nelle settimane precedenti le votazioni finali gli editori concedono interviste equilibratissime, a confronto i bizantinismi di De Mita erano italiano cristallino. Gli scrittori si comportano secondo copione: tutti ripetono «ma io non vincerò mai», dicono di apprezzare molto gli avversari, di avere letto tutti i loro libri. In verità non solo non li hanno letti, ma se potessero sbranerebbero i nemici con tutta la testa. Per l'occasione vengono creati progetti politici a tavolino, come nel caso della pur brava Silvia Avallone. Lo scorso anno era in pole position. Si sapeva che era in odore di vittoria da quando, l'estate precedente, aveva partecipato a un premio di poesia sponsorizzato dalla signora Cerruti Marocco (per la sfarzosa circostanza ribattezzata Contessa Cerruti Marocco Vien Dal Mare) a Cetona. Era bella e desiderata, modesta, tutti si complimentavano, un noto politico e un noto conduttore televisivo si lanciarono in una gara di versi a lei dedicati. Poi, però, accadde la disgrazia. Si mise in testa di sponsorizzarla Paolo Mieli. Il quale ha sostenuto Prodi, e Prodi ha perso; ha sostenuto Fini e Fini è ridotto com'è ridotto; sostenne l'Avallone e fu battuta dal fasciocomunista Pennacchi. Questa storia ci permette di arrivare al clou della festa, la serata della premiazione. Per la Avallone e il suo Acciaio, romanzo sulla Livorno degli operai (se la Avallone vedesse un vero operaio, correrebbe via in lacrime), era riunito il gotha rizzoliano. Mieli in persona, Pierluigi Battista. Si schierò con lei persino il sindaco Gianni Alemmano, che affermò di sostenerla per non far la figura di votare il fascio Pennacchi. Quando Silvia perse la sfida, le diedero qualche pacca sulle spalle, poi si dileguarono. C'era pure Veltroni, che avrebbe dovuto partecipare, ma si ritirò previa lettera in prima pagina sul Corriere. Rischiava di uscirne scornato: il Comune di Roma, giunta centrodestra, aveva appena rifinanziato la competizione e pareva che il favorito dell'allora assessore Umberto Croppi fosse proprio il vecchio amico Pennacchi. Dunque Walter, onde evitare figure meschine, si levò di torno. Però partecipo al gran galà: pare parteggiasse per la Avallone, ma anche per Pennacchi. Al tavolo col fasciocomunista di Latina c'erano invece Francesco Rutelli e la moglie Barbara Palombelli, tutti a sfoderare l'accento romano e a farsi mandare bellamente affanculo dal Pennacchi stesso. L'aspetto più difficile dello Strega consiste nell'accaparrarsi un tavolo per la cena, altrimenti si rischia di restare in piedi ore e ore. E, soprattutto, per mangiare bisogna affrontare il buffet, sul quale convergono tutti i 400 amici della domenica più una marea di giornalisti con appetito da biafrani. Volano gomitate e spintoni, urla («Amò, la vuoi la frittatina? Guarda che ce stanno pure gli spaghetti»). Il popolo intellettuale  si strafoga e intanto sciorina previsioni («Secondo me vince quello, come si chiama?, allungame 'na tartina, va»). Quando si incontra uno che si conosce, bisogna apostrofarlo con l'immancabile epiteto: «Carissimo, come stai?»  e intanto sbirciare che cos'ha nel piatto, se la lasagnetta o le olivine. Poi si corre a rifocillarsi (ma c'è una fila mostruosa e per nutrirsi bisogna pugnalare i vicini). Il momento buffet è l'angolo carnevalesco in cui tutto vale, ci si può scomporre come si vuole, ogni mossa è permessa. E quando si viene bruscamente richiamati alla realtà, si rischiano traumi. In zona vivande, lo scorso anno, fu intercettata da una troupe televisiva Dacia Maraini. Lo so perché ero di fianco a lei. Le chiesero di consigliare un libro. Lei, colta alla sprovvista, non se la sentì di abdicare al ruolo di maître à penser democratica e indicò un saggio di Maurizio Viroli. «È bellissimo, fa riflettere sullo stato della nostra politica, si chiama...». L'intervistatore aspettava con ansia, i secondi passavano: «Si chiama...?». E Dacia: «Si chiama...». Impietosito, le ho suggerito sottovoce: «Si chiama La libertà dei servi». E Dacia: «Ah, già, è vero! La rifacciamo scusi?». La rifece e consigliò quel libro ferocemente anti-Silvio. Poi mi chiese: «Ma lei come fa a sapere il titolo?». «So leggere. Cioè, l'ho letto». «Ah, ma perché l'ha letto? Di che cosa si occupa?». E di che mi dovrei occupare per leggere un libro? Di rivoluzione proletaria? Le rispondo che lavoro a Libero. Lei sorride, dice due parole di cortesia, e se ne va. Nel 2010 la cerimonia di premiazione è finita oltre l'una di notte. Nessun giornale è riuscito a riportare, per sopraggiunti limiti di tempo, il nome del vincitore. Tiziano Scarpa, in qualità di detentore del titolo, spogliava le schede con pazienza da scrutatore di provincia. L'ex scrittore cannibale che si vestiva da scolaretto e raccontava dei propri amplessi per scandalizzare, sedeva mesto al tavolo come un impiegato del catasto: potenza dello Strega. Questa è la funzione del riconoscimento: salottizzare, romanizzare, imborghesire. Ma di una borghesia scosciata e un po' saccente,  quella che sventola le biblioteche come fossero grosse tette da esibire in spiaggia. A loro, la kermesse serve per pavoneggiarsi un po', per dimostrare di non aver frequentato le elementari invano. Per i lettori, e per la cultura italiana, il premio è perfettamente inutile. Gli editori vogliono pubblicità? Con gli stessi soldi sborsati annualmente dalle casse pubbliche potrebbero agevolmente finanziarsi una campagna di spot televisivi. Dunque auspichiamo che lo facciano e che la leggendaria kermesse cessi di angustiarci.  Per questo motivo, quest'anno tratteremo lo Strega come tutti gli altri premi: la parte interessante (quella  dei litigi,  réclame gratuita favorita dalla stampa a cui il mondo letterario di rado offre argomenti più gustosi) l'abbiamo già ampiamente esaurita qui. Diceva lo scrittore austriaco Thomas Bernhard: ricevere un premio è come farsi depositare un escremento in testa e c'è chi è disposto a pagare per godere del singolare shampoo. Noi non lo siamo, dunque sul giornale, il prossimo 15 giugno e nella serata finale del 7 luglio, daremo alla notizia il peso che ha. Una breve in cronaca per un tormento infinito. di Francesco Borgonovo

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