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La Russa in guerra (col vocabolario): sgancerà bombe, però "non ultronee"

Dichiarazione pirotecnica del ministro: "Missili in difesa dei civili". Per lui l'unico bombardiere è Mou... / MAINIERO

Federica Lazzarini
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Se anche uno come lui, che di solito parla chiaramente, comincia a litigare con le parole, allora non possono esserci più dubbi: la guerra in Libia, partita male, sta finendo ancora peggio. Dal punto di vista militare e politico. E persino da quello lessicale. Dichiarazione del ministro Ignazio La Russa alle Commissioni Difesa ed Esteri di Camera e Senato: «L'impiego delle nostre forze aeree sarà nel pieno rispetto della Risoluzione 1973 dell'Onu». E fin qui nulla di nuovo: la Risoluzione c'è e detta la linea. L'Italia si attiene e il ministro spiega meglio: «L'impiego delle nostre forze non è ultroneo rispetto all'obiettivo di difesa della popolazione civile libica». Dal vocabolario: “ultroneo”, cioè spontaneo, volontario, di propria iniziativa. Possibile mai che quest'impiego sia non volontario? Impossibile. Infatti “ultroneo” ha anche un altro significato, in parte improprio, avvertono i dizionari, ma largamente diffuso: cosa estranea o superflua, che va oltre i limiti di quanto è necessario o richiesto. Abbiamo capito tutto: c'erano una volta le bombe intelligenti, che ogni tanto diventavano cretine e facevano un massacro non voluto. Ora, almeno in Libia, ci sono pure le bombe ultronee, quelle, non sappiano se intelligenti o cretine, colte o incolte, che prima di cadere al suolo chiedono il permesso alla Risoluzione 1973 dell'Onu: scusi tanto, egregia Risoluzione, secondo lei, se esplodo in quel posto lì, sono ultronea o non ultronea? Ottenuto il marchio doc, inultroneità di origine controllata, la bomba cade e fa una strage, che però nessuno al mondo potrà mai considerare una strage. Ovvio, la bomba non era ultronea. Ricapitolando. In Libia c'è una guerra, distruzioni, morti, feriti e tutto ciò che le guerre solitamente comportano. E sembra, purtroppo, una barzelletta. I nostri aerei sganceranno bombe, che come tutte le bombe, anche quelle lanciate a fin di bene, faranno un gran male a colpevoli e innocenti. E dirlo è vietato. Più passano i giorni e più l'intervento militare si dimostra, com'era facile prevedere, un intervento sbagliato. Siamo nel pantano, infognati in una rivolta che non ci doveva riguardare. E per non ammetterlo entriamo in guerra persino con il vocabolario. Noi, che in certe cose siamo da sempre esperti. E persino gli americani, che fino a ieri spaccavano il mondo in due, buoni e cattivi, bianco e nero, e che ora scoprono tutte le sfumature del grigio, saccheggiando i dizionari e facendo ridere per le loro peripezie semantiche. Cose che capitano quando bisogna far convivere un premio Nobel per la Pace come Obama con ben tre guerre (Iraq, Afghanistan e Libia). Da notare: alla Casa Bianca non hanno mai parlato apertamente di guerra. Messi alle strette,  hanno spiegato: è un'azione militare limitata nel tempo e negli scopi. Viste le perplessità, hanno spiegato meglio: quello che stiamo facendo è rafforzare una Risoluzione dell'Onu. Ovviamente, ciò comporta anche un'«azione cinetica militare». I Premi Nobel non fanno guerra, non lanciano bombe. Dicono o fanno dire che non vogliono ammazzare Gheddafi, e poi gli bombardano la casa. I premi Nobel non sono i gendarmi del mondo. Loro hanno una strategia sofisticata: «leading from behind», come ha spiegato il New Yorker, cioè guidare da dietro, presumibilmente con un'azione cinetica e forse anche con bombe non ultronee. E chissà perché, con ordigni così buoni e leader così pacifici, in Libia si muore. Deve essere colpa del vocabolario. Quello vecchio, forse scritto da Gheddafi. P.S. Dobbiamo rettificare: le bombe vere esistono. Ha detto ieri La Russa parlando di calcio, semifinale di andata di Champions League tra Real e Barcellona: «Nelle due partite vince Mou, lui che può bombarda il Barca». Mou è Mourinho, l'unico al mondo che fa la guerra. di Mattias Mainiero

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