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Ieri Katanga, oggi no global. I brutti tempi rischiano di tornare

Il movimento studentesco milanese, negli anni Settanta, metteva a ferro e fuoco la città. Un pericolo sempre attuale / PANSA

Giulio Bucchi
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Qualcuno ricorda chi fossero i Katanga? Si erano dati il nome di una provincia del Congo, ma erano milanesi, anzi milanesissimi. Costituivano il reparto di punta di un piccolo esercito, i militanti del Movimento studentesco, nato attorno all'Università statale e guidato da un leader diventato famoso, Mario Capanna. Dal 1969 in poi, per un bel po' di anni, il Movimento risultò il padrone della piazza ambrosiana. Mettendo nell'angolo un'infinità di poteri: accademici, politici, giudiziari e culturali.  I Katanga erano i membri del servizio d'ordine, incaricato di difendere la Statale dagli assalti della polizia e dei fascisti. Di solito marciavano in testa ai cortei. E si facevano notare per la divisa da battaglia. Tuta, elmetto, mascherina antilacrimogeni, anfibi pesanti e spranghe. Stavano bene in vista, come per dire: attenti a non rompere i maroni, perché ci siamo noi e ve la faremo pagare. Ma i Katanga erano anche i commandos del Movimento, il suo Corpo Speciale, addetto ai lavori sporchi. Dirò dopo di che genere fossero queste imprese. Qui devo premettere che non parlo per sentito dire, né sulla base di qualche schermata di Google o di Wikipedia. Negli anni Settanta lavoravo a Milano, da cronista prima della  Stampa  e poi del  Corriere della sera. Ho visto con i miei occhi quel che accadeva. E l'ho raccontato in decine di articoli. Dunque, come direbbe un Pubblico ministero, sono una “persona informata sui fatti”.  I fatti di allora erano molto semplici. E risultavano la traduzione pratica del motto che recita: il più forte ha sempre ragione. Se poi il più forte lo è perché ha in mano un'arma capace di spaccare anche la testa più dura, il gioco è fatto. L'arma preferita dai Katanga era una grossa chiave inglese, marca Hazet, numero 36. Gli piaceva tanto maneggiarla che in suo onore crearono un slogan minaccioso: “Hazet 36, fascista dove sei?”. Per qualche anno, dal 1968 al 1971, il Movimento studentesco fu il gruppo egemone alla Statale. Poi cominciò a subire la concorrenza delle altre parrocchie della sinistra ultrà. La sua base si ridusse. Dai ventimila seguaci abituali scese a tre, quattro mila. Diventò un gruppo sempre più ristretto e, come succede nelle vicende politiche, sempre più fanatico. Nelle assemblee della Statale cominciammo a sentire un grido senza vergogna: “Viva Berija!”, in omaggio al ministro dell'Interno staliniano, un assassino sadico. Qualcuno poi iniziò ad inneggiare alla Ghepeu, la polizia segreta sovietica. Nessuna critica venne più ammessa. Le rappresaglie diventarono isteriche. Bersaglio: chiunque osasse dissentire dal Movimento.  «La spranga è al potere» scrisse la  Rivista anarchica, raccontando quanto avveniva alla Statale: «Il Movimento studentesco ha organizzato una mini-Ghepeu che mette in scena una grottesca riedizione dei metodi staliniani: aggressione fisica e poi calunnia». Il braccio armato era quello dei Katanga. Pronti a pestare il fascista, ma pure il sindacalista socialista e lo studente ebreo.  I Katanga avevano fatto scuola. E anche negli altri gruppi ultrà nacquero corpi speciali in grado di eguagliare le loro imprese e spesso di fare meglio. Tra i commandos più violenti spiccavano quelli di Avanguardia Operaia. Furono loro ad assalire uno studente di 19 anni, Sergio Ramelli. Era un fascista, iscritto al Fronte della gioventù missina: un ragazzo smilzo, il contrario del picchiatore. Non aveva mai aggredito nessuno, si limitava ad attaccare i manifesti del Fronte.  All'Istituto tecnico Molinari lo tormentarono in tutti i modi. Il suo tema in classe sulla Resistenza non piacque per niente agli staliniani di Avanguardia e degli altri gruppi dominanti in quella scuola: Lotta continua e il Movimento. Lo processarono durante un'assemblea. Ne decretarono l'espulsione dal Molinari. Quindi scrissero sui muri la sentenza: “Ramelli fascista, sei il primo della lista”.  Il padre di Ramelli lo iscrisse a una scuola privata, ma la precauzione non salvò il ragazzo. Il giovedì 13 marzo 1975, i katanga di Avanguardia operaia, alle tredici del pomeriggio, lo aggredirono mentre rientrava a casa. Erano in sette contro uno, armati con sbarre di ferro e grosse chiavi inglesi. Ci diedero dentro e gli spaccarono il cranio. Ramelli venne operato al Policlinico, cinque ore d'intervento per ricostruirgli la calotta cranica. Il ragazzo sembrò riprendersi, ma presto entrò in coma. La sua agonia durò quarantasette giorni. Poi morì. I suoi assassini vennero scoperti dieci anni dopo. Tutti avevano fatto parte del servizio d'ordine di Avanguardia Operaia.  Da quel tempo feroce sono trascorsi molti anni. I Katanga in quanto tali non esistono più. In compenso sono comparsi i loro moderni imitatori. Sono gli antagonisti dei tanti centri sociali, i noglobal, i gruppi anarchici. È  dal 2008 che li vediamo in azione. Non hanno ancora accoppato nessuno, però tutto fa pensare che prima o poi ci riusciranno. Anche senza un calcolo deliberato, ma per caso, in seguito a un'aggressione andata oltre il limite. Milano è una città dove le incursioni di questi gruppi sono diventate molto numerose. E tutte dirette contro il nemico di sempre, oggi il centro-destra. Conosco poco Giuliano Pisapia, ma credo sia un uomo pacifico, alieno da ogni violenza. Tuttavia i meccanismi della lotta politica si rivelano sempre implacabili. E mi domando se la sua vittoria, e poi la sua leadership sulla città, non ci riporterebbero indietro nel tempo. Conosco bene Milano e posso rispondere con schiettezza: temo di sì. di Giampaolo Pansa

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