La tavola apparecchiata per il 2° round: Bossi è pronto a lasciare il Cav. Ancora

Andrea Tempestini

Basta guardare le facce e si capisce tutto. Silvio Berlusconi, ripreso dalla tivù mentre si aggrappa a Barack Obama e gli parla della dittatura giudiziaria che soffoca l’Italia, ha il volto dell’uomo disperato. Dalle mie parti si dice “sfilusumià”, uno che ha perso il suo aspetto abituale. Gli occhi sono due fessure, gli zigomi sporgono come gelidi speroni, le labbra quasi non si vedono, il colorito è terreo. Il Cavaliere presenta al G8 la maschera della persona angosciata, travolto dalla convinzione di essere vittima di una congiura allestita dai pubblici ministeri, dai media avversari e dalle sinistre. Teme di essere spinto a terra. E ferito anche nel patrimonio personale per il risarcimento astronomico che forse dovrà versare al suo nemico di sempre, l’ingegner Carlo De Benedetti. Mi hanno colpito le parole del ministro degli Esteri, Franco Frattini: il premier è un uomo straziato da una profonda  sofferenza. Umberto Bossi, invece, ha la faccia di uno che ha visto la morte da vicino ed è riuscito a sconfiggerla. I capelli sono una selva ribelle, gli occhi due fari dilatati, mentre la bocca va per conto suo. Le parole gli escono a stento, pronunciate da una voce rauca. Le mosse del corpo sono rallentate. Ma la debolezza fisica non attenua la sua forza. Se lo guardi bene, e se lo ascolti quando tenta di parlare come gli riusciva un tempo, ti accorgi di avere di fronte un leader politico che se ne frega di tutto e di tutti, a cominciare dall’amico Silvio. E che si prepara a mollarlo per andare da solo verso l’ignoto. Del resto, Bossi l’ha già detto: la Lega non affonderà insieme a Berlusconi, lui può annegare, ma noi ci salveremo. A settembre il capo della Lega compirà settant’anni. Ma a parte l’aspetto fisico è sempre uguale a se stesso. La prima volta che lo intervistai, nel febbraio 1992, alla vigilia dell’ultima campagna elettorale della Prima Repubblica, aveva già la grinta  del leader sicuro di sè. Insieme alla certezza di uscirne vincitore, dal punto di vista personale e politico. Nel dicembre dell’anno precedente era incappato in un piccolo incidente cardiaco, ma lo avevano afferrato in tempo e tratto a riva. Mi confessò: «Adesso sto bene. Mi hanno anche ridato il permesso di fumare. Sessanta sigarette in sei mesi, invece che in un giorno, quelle che mi fumavo prima. Eccomi qui, pronto per la guerra elettorale. Non sarà una battaglia facile perché contro di noi è stata montata una vera congiura!». Può sembrare strano, ma ben prima di Berlusconi  era il Bossi a vedersi circondato da un complotto: «So di essere nel mirino di tutti i partiti. E ho già sentito i loro colpi. Hanno cominciato a darsi da fare allargando i cordoni della borsa per comprare gente nostra. Il tentativo era quello di sgretolarci, inventando una Lega numero due. Non ci  sono riusciti. Così adesso dovranno provarci con un altro sistema che io ho scoperto». Gli chiesi quali fosse. E l’Umberto me lo rivelò: «La Falange Armata. Ne ha sentito parlare? Secondo me, è la P2 moderna. È uno dei gironi infernali che stanno in agguato sotto lo Stato italiano. Hanno fatto circolare la voce che mi accopperanno.  Ma io sono tranquillo. Non giro scortato. Non possiedo auto blindate. E per fortuna ho una moglie d’aspetto fragile, però molto forte». In realtà non esisteva nessuna Falange Armata. C’era invece l’ostilità di molti ras politici, a cominciare da quelli socialisti. Gli ufficiali di Bettino Craxi erano convinti che la Lega fosse un’armata Brancaleone di falliti. A Torino un cantante fallito: Gipo Farassino. In altre città l’avvocato fallito, l’attore fallito, il politico fallito. Il deputato socialista di Genova, Mauro Sanguineti, si avventurò nella profezia più balorda: «Chi vota Lega non vota un partito. Vota una scheda bianca con più forza. Per questo credo che il leghismo sarà un fenomeno passeggero!». Bossi era già stato eletto al Senato il 14 giugno 1987. Insieme all’unico leghista entrato alla Camera. Allora la Lega lombarda risultava un partito da niente: 186 mila voti, lo 0,5 per cento. A Palazzo Madama, l’Umberto stava in un bugigattolo a mezzadria con il Partito Sardo d’Azione. Ma era convinto che presto non sarebbe più rimasto da solo. Mi colpì la sua previsione sull’esito del nuovo voto: «Dopo il 5 aprile avremo in Parlamento 60 deputati e quasi trenta senatori. Se devo essere cauto, dirò un totale di 70-80 parlamentari». Bossi azzeccò la schedina. Il bottino della partita giocata il 5 aprile 1992 fu di 55 deputati e di 25 senatori, in totale 80 eletti. Strappati a chi? L’Umberto me l’aveva spiegato in anticipo, il giorno dell’intervista: «Strapperemo voti un po’ a tutti. A Craxi perché l’onda lunga socialista è finita ed è rimasta soltanto l’onda lunghissima dei debiti dello Stato. E poi li porteremo via a quel disastro che è l’ex Pci. Sarà meno facile erodere la Dc. La Balena bianca è strapotente e offre conservazione unita alla stabilità. Sarà un osso duro. Ma le nostre fanterie attaccheranno anche la Dc. E le ruberemo molti voti». Bossi continuò a vincere pure dopo il 5 aprile. Nel bugigattolo al Senato mi aveva detto: «Noi siamo l’annuncio di morte della partitocrazia. E non faremo il  puntello di questo regime. Visto che la sua intervista si sta concludendo, le regalo una notizia: il sistema non tiene più, dopo le elezioni i partiti si spaccheranno, vedremo un grande blocco disintegrarsi in migliaia di schegge». Il capo della Lega fu un buon profeta. In quel momento Mani pulite era soltanto un’aspirazione vaga. E il dottor Di Pietro un illustre sconosciuto. Poi Tangentopoli rafforzò il leghismo. Tutti si resero conto che lo slogan musicale della campagna elettorale 1992 non era una fanfaronata. In stile Lega-reggae faceva così: «Mi sun lumbàrd e me giran i ball. Ma ariva il Boss e ve spaca gli oss!». E come spaccatore verbale di ossa, l’Umberto si rivelò imbattibile. Vinceva e insultava. Seguitava a vincere e giù botte con le parole. I democristiani? «Una cesta di lumache schifose che filano una volta a sinistra e una volta a destra». Oppure: «I soliti porci, i sieropositivi della partitocrazia». Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro? «Il Rasputin che abita al Quirinale». Carlo Azeglio Ciampi? «Un massone e piduista. Il capo della banda del buco. Il leader di Baraccopoli». I socialisti? «Marcantoni da galera». E Achille Occhetto? «Un saltimbanco incoerente. Il leader del partito-ombra del capitalismo». Nel giugno 1993, Bossì andò alla conquista del comune di Milano. Anche in quel caso l’Umberto, da vero barbaro, era convinto di vincere. E di fare sindaco il leghista Marco Formentini, battendo il candidato di centro sinistra, Nando dalla Chiesa. La battaglia fu ben più furiosa di quella odierna. I leghisti cantavano: «Palazzo Marino, ti faremo il culettino! Palazzo socialista, sei il primo della lista! Palazzo craxiano, ci dovrai baciare il banano!». E Formentini vinse al ballottaggio.    Quindi arrivò il 1994, un anno cruciale. Il primo governo Berlusconi insieme alla Lega. Con Roberto Maroni vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno. A fine anno il ribaltone di Bossi, invano contrastato da Maroni. E nel gennaio 1995 il governo tecnico di Lamberto Dini. Vogliamo tirare qualche somma? L’Umberto non è alieno ai mutamenti di cambio. Sta dalla parte che gli conviene. Oggi sente suonare l’allarme rosso. La Lega sta perdendo voti, iscritti e coesione interna. Si ripresenta il contrasto fra Maroni e Bossi. Tutto dipende dal ballottaggio di Milano. Se vincerà Pisapia, Bossi mollerà Berlusconi al suo destino. E non è escluso che ritorni a bollarlo come Silvio il Mafioso. L’aveva già fatto anni fa. di Giampaolo Pansa