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Decide il destino del premier, Ma Giulio rischia di saltare

Tremonti, o la borsa o la vita. Silvio e Lega non possono più aspettare: serve riforma del fisco. Se non si piega al diktat... / Bincher

Andrea Tempestini
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Non si può dire che Giulio Tremonti sia stato poco chiaro sulla riforma fiscale. Ne rivendica la paternità (è stato lui a scrivere quella parte del programma elettorale), ha messo sotto tutti gli esperti da lui convocati nei tavoli fiscali per esaminare le possibilità tecniche. Ha tutto pronto, ma sostiene che non esiste copertura per finanziarla («trovatemi gli 80 miliardi necessari»). Il ministro dell'Economia ha un problema in più: il messaggio che verrebbe dato con quella riforma fiscale. Tremonti non pensa agli elettori, ma ai grandi azionisti dell'Unione europea, al patto di Maastricht e ai mercati finanziari. Mentre all'Italia sono chiesti ufficialmente sacrifici (40 miliardi di taglio del deficit pubblico entro il 2014), l'annuncio di un allargamento dei cordoni della borsa rischia di appesantire la situazione: i titoli pubblici potrebbero andare in tensione, i differenziali con i titoli di Stato tedeschi aumentare, il costo del debito pubblico lievitare compromettendo da una parte la possibilità reale di un alleggerimento della pressione fiscale e dall'altra appesantendo i sacrifici richiesti. Silvio Berlusconi non è stato meno chiaro. Lui quella riforma la vuole a tutti i costi. Crede che se non abbassa ora le tasse perderà ogni possibilità di recuperare il rapporto con il suo elettorato. E prima ancora perderà l'asse con la Lega Nord su cui poggia oggi il suo governo. Il premier è convinto che l'ultimo dei problemi sia la soluzione tecnica per finanziare la riforma fiscale (si può trovare fra le pieghe dei tavoli di Tremonti), ed è altrettanto convinto di avere un buon asse con Nicholas Sarkozy - che ha i suoi stessi problemi - che gli sarà utile alleato all'interno della Ue per chiedere una dilazione del piano lacrime sangue: 40 miliardi da qui al 2014 sono una cosa, spalmati fino al 2016 avrebbero un altro impatto. È chiaro a tutti che la linea Tremonti non può sposarsi con quella Berlusconi: divergono ampiamente. È già accaduto in passato. In una sola occasione - nel 2004 - questa divergenza costò la poltrona a Tremonti. Ma non fu Berlusconi a decidere la rottura: Fini chiese quella testa minacciando la ritirata di An dal governo, e la ottenne. Tutti gli altri contrasti si sono conclusi con Tremonti che minacciava le dimissioni, e Berlusconi che si arrendeva al suo ministro dell'Economia. Questa volta i precedenti però contano poco. In quel braccio di ferro sul fisco Berlusconi racchiude le già deboli speranze di vita (politica) sua e del Pdl. Con una novità in più: anche la Lega è sulla stessa barca. Molti ministri del Carroccio hanno un ottimo legame personale con Tremonti. Ma hanno ora l'impressione che quel legame si sia drammaticamente spezzato con il loro elettorato. Sono a un bivio: o scaricano tutto l'insuccesso su Tremonti e la sua politica (e stanno iniziando a farlo), o  saranno loro a pagare sempre più pegno come è accaduto alle amministrative. Questo braccio di ferro ha due sole soluzioni realistiche: la resa di Tremonti, pronto a piegarsi alle ragioni della realpolitik di centrodestra. O le dimissioni del ministro dell'Economia, pronto ad essere nuovamente sostituito con un tecnico in grado di ridurre lo choc della notizia sui mercati finanziari (un Domenico Siniscalco- Cincinnato o un Vittorio Grilli, per citare le candidature che vanno per la maggiore). Il dilemma non ha facile soluzione. Tremonti avrebbe una terza via: convincere la Lega a scaricare tutte le responsabilità su Berlusconi, facendo cadere l'esecutivo dopo Pontida e preparandosi ad appoggiare un governo di emergenza, magari guidato dall'attuale ministro dell'Economia. Questa strada però è ancora più problematica: la Lega non è più il monolite che fu, e in fondo la crisi fra Berlusconi e il suo elettorato è assai simile a quella fra Bossi e il suo. Più facile che fra i due - che sono monarchi da quasi venti anni - si crei solidarietà piuttosto che un conflitto in grado di distruggere entrambi. Difficile anche che Tremonti si pieghi alla linea del premier: qualche anno fa lo avrebbe fatto, oggi no. Il ministro dell'Economia ha ancora molti anni di carriera politica di fronte, e la sua sensazione è che probabilmente nel medio termine non sia il Pdl l'unico orizzonte a lui possibile e congeniale (proprio ieri molte chiacchiere hanno accompagnato un incontro milanese con Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle). Se Tremonti non si piega, resta dunque una sola strada percorribile: quella delle sue dimissioni. Ed è la puntata che i bookmakers della politica pagano meno, considerandola la più probabile. di Fosca Bincher

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