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Il governo riparte. Così Silvio programma il dopo-Berlusconi

Cav: "Non sarò leader per sempre, ma avanti così". Bossi gelido: "Tutto da vedere". Premier però rilancia e blinda la riforma del fisco

Andrea Tempestini
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Caramelle e una tazza di latte. Il dibattito in Senato sulla verifica di maggioranza è lungo, noiosissimo. Berlusconi fa fronte bombardandosi di calorie. Da quando è arrivato a Roma, lunedì sera,  il presidente del Consiglio non si è fermato un attimo. Un vertice notturno a Palazzo Grazioli per mettere d'accordo Pdl e Lega su trasferimento dei ministeri e Libia; il voto di fiducia alla Camera; il discorso a Palazzo Madama sull'allargamento della coalizione; infine il ritorno a Montecitorio, in serata, per il voto finale sul decreto sviluppo. «È andata bene», commenta a fine giornata Silvio, il referimento è ai 317 voti di fiducia messi insieme alla Camera, record assoluto da quando, salutato Fini, la maggioranza è in versione Lilliput. Lo champagne però rimane in ghiacciaia, zero brindisi, non è il momento. L'equilibrio c'è ma è precario, la Lega attraversa una fase di turbolenza interna e il Pdl pure. Per cui, nel suo intervento a Palazzo Madama, Berlusconi si tiene prudente nei toni e nei proclami, molto Letta style. Gioca in difesa, non provoca, coccola il Quirinale, gratifica Bossi, apre all'opposizione. Ma soprattutto lascia intravedere il termine della sua parabola politica. È la prima volta: «Non voglio essere premier a vita o leader del Pdl per sempre», ma neanche vuole essere cacciato a pedate dalla sinistra e dai giudici, Berlusconi.  Il suo obiettivo finale è questo: «Lasciare all'Italia un grande partito legato al Ppe, trasparente e democratico, baluardo di democrazia e di libertà». Il Pdl è una fase intermedia, il Cavaliere ha in mente un ultimo grande sforzo creativo, un movimento politico tutto nuovo. Succederà al momento opportuno. Per ora Silvio non schioda: «Una crisi di governo sarebbe folle, una sciagura per l'Italia con pesanti conseguenze sulla stabilità economica e finanziaria». Finora «siamo riusciti a tenerci lontani dal baratro del default ma se si andasse alla crisi oggi cosa accadrebbe?». Domanda e risposta: «Le agenzie di rating ci tengono sotto osservazione  e le locuste della speculazione non aspettano altro che colpire la preda». E poi: in nessun Paese, ricorda il Cavaliere, «le opposizioni e i media chiedono le dimissioni del governo in seguito al risultato delle elezioni di medio termine». La sconfitta c'è stata e Berlusconi non lo nega.  Ma è uno stimolo a riflettere su «una più incisiva azione di governo». Allora «andremo avanti fino al 2013», utilizzando il tempo che manca per «fare le riforme necessarie». Quali? Il premier rispolvera i cinque punti (giustizia, tasse, federalismo, Sud, sicurezza) ma si concentra soprattutto sulla riforma del fisco: «Arriverà prima della pausa estiva» e avrà «cinque imposte in tutto» e «tre aliquote», che saranno «più basse». Inoltre sarà rivisto «il sistema delle deduzioni e delle detrazioni». Il tutto senza creare «buchi nel bilancio». Parole che prendono di sorpresa il ministro Tremonti, assente in aula mentre il premier le pronuncia. I due si incontrano successivamente nello studio del presidente del Consiglio a Palazzo Madama. Ma ambienti di governo negano che ci sia stata una nuova lite tra leader e super ministro su tempi e copertura della legge delega. Silvio, nel corso dell'intervento in Senato, ha parole di stima per Napolitano (con cui concorda la linea da tenere sulla Libia) e per Bossi: «Hanno provato in tutti i modi a dividerci, ma non ci riusciranno mai». Il Senatur però appare impermeabile e sulla verifica dice: «Nulla è scontato». A proposito di riforme: il capo del governo prova ad aprire all'opposizione. Alla minoranza moderata. All'Udc: «Ho sempre auspicato l'ingresso in maggioranza delle forze che si riconoscono nel Ppe. Ma hanno risposto chiedendo la mia uscita di scena. E sollecitando un suicidio è impossibile celebrare un matrimonio...». In una prima stesura dell'intervento, c'era un'apertura molto più significativa a Casini e a Montezemolo. Poi Berlusconi c'ha ripensato. Non è il momento. Non ancora. di Salvatore Dama

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