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Dai '50 la sinistra non cambia: Dall'Autosole ai sassi No-Tav

I 'progressisti' cercano sempre di bloccare tutto ciò che porta sviluppo. Ecco perché il governo non deve dargliela vinta / Pansa

Giulio Bucchi
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I disordini in Val di Susa per la Tav mi hanno fatto ricordare una vecchia storia: la costruzione dell'Autostrada del Sole. Nessuno si rammenta più come nacque quest'opera gigantesca, destinata a collegare Milano con Roma e Napoli, l'Italia del Nord a quella del Sud. Ma non so immaginare quale sarebbe oggi il nostro Paese senza un'arteria tanto vitale. Costruita con rapidità e superando una serie di ostilità e di resistenze più o meno uguali a quelle che incontra oggi l'Alta Velocità nell'area montana di Torino. A raccontarmi in che modo nacque l'Autosole fu uno dei progettisti, l'ingegner Ajmone Jelmoni. Era l'estate del 1973 e avevo iniziato da poco a lavorare come inviato al Corriere della sera. Il direttore Piero Ottone e il suo vice Franco Di Bella mi chiesero di scrivere un'inchiesta sulle autostrade italiane, com'era nata la rete e quali fossero i pregi e i difetti. Qualcuno mi parlò di Jelmoni che insegnava al Politecnico di Milano. Andai a trovarlo e lui mi raccontò una vicenda che non conoscevo. Era il maggio 1952 e a Palazzo Chigi stava Alcide De Gasperi, alla guida del suo settimo governo, un monocolore democristiano con l'appoggio dei repubblicani. Jelmoni ricevette una telefonata di Marcello Boldrini, il presidente dell'Agip. Boldrini gli disse di partire subito per Roma, dove ad attenderlo c'era il ministro delle Finanze, Ezio Vanoni, dicì e valtellinese come Jelmoni. Arrivato nello studio di Vanoni, il progettista venne presentato a un signore che non aveva mai visto. Era un tizio piccolo di statura, il colorito olivastro, dentoni da squalo e aspetto grifagno: Vittorio Valletta, il capo della Fiat, conosciuto come il Professore. Senza tanti giri di parole, Valletta gli disse: «L'Italia ha bisogno di un'autostrada che avvicini Milano a Roma e poi a Napoli. La Fiat e altre grandi aziende ci stanno pensando da tempo. Abbiamo in mente un tracciato. E adesso glie lo mostrerò».  Emerse subito un problema: nell'ufficio di Vanoni non c'era nessuna carta geografica. Neppure la sua segreteria la possedeva. Fu cercata nelle stanze del ministero e infine ne venne trovata una: era una vecchia carta del Touring Club, di quelle a fisarmonica. Valletta l'aprì sulla scrivania di Vanoni e brandendo un matitone rosso e blu tracciò con sicurezza il percorso della futura Autosole. Jelmoni mi disse che il percorso segnato da Valletta venne poi seguito al millimetro nella costruzione. Con una sola variante: la cosiddetta “curva Fanfani”, per far passare l'autostrada vicino ad Arezzo, la provincia di Amintore. Il passo successivo fu di creare una società chiamata Sisi. La sigla indicava la Società iniziative stradali italiane, destinata a finanziare il progetto dell'Autosole. Chi erano i proprietari della Sisi? Un quartetto di aziende che rappresentava il gotha delle imprese industriali di allora: Fiat, Pirelli, Italcementi e Agip. Tutte interessate alla nascita della grande autostrada. Alla costruzione avrebbe pensato l'Iri, il colosso statale. I lavori iniziarono il 19 maggio 1956, un altro esempio di celerità oggi impensabile. In quell'epoca, l'inizio degli anni Cinquanta, i governi avevano una solidità che ai giorni nostri ci sogniamo. I leader erano dei signori sperimentati, che la lunga parentesi del fascismo non aveva fiaccato. Il più anziano era De Gasperi, 71 anni. Vanoni ne aveva 49, Fanfani 44, Boldrini 62. Il presidente della Fiat, Valletta, stava per compierne 70. Tutti sapevano che la costruzione dell'Autosole avrebbe incontrato più di un ostacolo. Ma per dirla alla buona se ne impiparono, convinti che il loro dovere era tirare diritto. E infatti andò così. Le sinistre di allora, il Pci, il Psi e la Cgil si agitarono subito. Strillando che l'Italia aveva bisogno di case, di ospedali, di scuole, di asili e non di autostrade. Il loro bersaglio era la Fiat e Valletta che la guidava con mano dura. Le opposizioni sostennero che l'Autosole serviva soltanto alla “Feroce” di Torino. Era la famiglia Agnelli ad aver bisogno di asfaltare l'Italia per far correre le proprie automobili, costruite da quel fascista del professor Valletta. Tutte le grandi opere pubbliche suscitano avversioni, spesso profonde. Quando Enrico Mattei decise di realizzare il metanodotto nella Pianura padana, si trovò di fronte centinaia di nemici. Di solito erano piccoli proprietari agricoli che vedevano i terreni invasi dai maledetti tubi del gas. I tecnici e gli operai dell'Eni vennero affiancati da squadre di partigiani armati. Erano bianchi e non rossi, giovanotti svelti che avevano combattuto la guerra civile nelle formazioni cattoliche. Oggi, in val di Susa, a fingersi partigiani sono i nemici della Tav. A cominciare dalle truppe violente degli antagonisti e degli anarchici, arrivati da Torino e da altri centri del Nord. Per schierarsi a difesa della Barricata Stalingrado. Le giornaliste delle tivù persistono nel definirli «i ragazzi dei Centri sociali», come se fossero adolescenti che a mani nude resistono alle truppe di una dittatura. Ma la verità ci presenta dei fanatici con i capelli grigi e pronti anche a uccidere.  Attorno al cantiere della Tav ne vedremo delle brutte. Sta nascendo un clima da guerra civile, sotto gli occhi di una sfilza di professori e di intellettuali. La Stampa del 27 giugno ha pubblicato qualche nome. Gli storici Giovanni De Luna e Marco Revelli. Il giornalista Giulietto Chiesa. Sino a un leader della sinistra radicale dato per disperso: Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista. Un partito che gli elettori hanno escluso dal Parlamento e che adesso spera in una rivincita sulle barricate valsusine.  Che cosa deve fare il governo Berlusconi? Quello che sta già facendo. Mantenere fede alle decisioni prese. Resistere ai violenti. Tenere aperti i cantieri. Procedere nei lavori per la Tav. Soltanto in questo modo, il Cavaliere e i suoi ministri possono dimostrare di aver conservato un minimo di senso dello Stato. Che non è un'astrazione, bensì la prova che l'Italia è ancora una comunità democratica fondata sul primato della legge. Avere il senso dello Stato è un obbligo per chiunque abbia un incarico pubblico. Chi non avverte questo dovere sbaglia. Per uscire dal vago, penso che sia incorso in un errore non da poco un magistrato importante: Giandomenico Lepore, il capo della Procura della repubblica di Napoli. Un ufficio che sta su un fronte molto delicato: dall'inchiesta sulla P4 all'indagine sui rifiuti che intasano la metropoli campana.  Lunedì sera, il dottor Lepore non ha resistito al richiamo di madama Gruber ed è stato il protagonista di una puntata del suo Otto e mezzo, su La 7. L'ho ascoltato allibito. Non avevo mai visto il capo di una procura sproloquiare in diretta sulle indagini che il suo ufficio sta conducendo. Sempre in assenza dell'unico contradditore naturale: l'accusato o gli accusati che ha messo alle corde.  La presenza di magistrati nei talk show televisivi non è più una novità in Italia. Come cittadino che ha un gran rispetto per la giustizia e per chi l'amministra, lo considero un sopruso. Ma il caso Lepore è pesante e senza precedenti. Se farà scuola, come temo, dovremo purtroppo constatare che per molte delle toghe il senso dello Stato è un dovere inesistente. Vogliamo dire che è soltanto un foglia di fico? Come tutte le foglie, prima o poi cade. Meglio non pensare a quel che ci sta sotto.  Andrà a finire che a difendere lo Stato rimarranno soltanto le forze dell'ordine. Penso agli agenti di polizia che in val Susa rischiano la pelle. Compensati da stipendi miserevoli. Sono dei poveri in divisa. La carne da cannone in tutte le guerre. Nella storia d'Italia è andata sempre così. Inutile stupirsene. di Giampaolo Pansa

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