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Armani si deve rassegnare: moda finirà in Borsa

Re Giorgio fa bene a difendersi da attacco finanza, ma è l'unico che può farlo. Il made in Italy ha bisogno di soldi

Andrea Tempestini
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Lunga vita al divino Giorgio. Sì quel Giorgio Armani che rappresenta, dietro Ferrari, l'unico marchio davvero made in Italy nella classifica dei 100 brand più famosi al modo, preceduto solo da Gucci che ormai fa parte della scuderia Ppr, leggi François Pinault. Lunga vita al genio che sa far la differenza, sulle passerelle e fuori. Come è capitato in questi giorni, quando Armani è sceso in campo in prima persona per accusare che «la moda è in mano alla Borsa», sfruttando la coincidenza non casuale con il debutto di Prada sul listino di Hong Kong ma anche di Salvatore Ferragamo in Piazza Affari, o l'annuncio del prossimo sbarco sul mercato finanziario di Brunello Cucinelli nel prossimo autunno. Insomma, un'ondata non casuale che rischia di sommergere e stravolgere la lezione di vita dell' “imprenditore appassionato che lavora nel tempo, continua a creare posti di lavoro incentivando l'artigianalità e alimentando un patrimonio di conoscenza che rischierebbe altrimenti di perdersi”. E' quanto scrive lo stesso Armani in una lettera aperta che non potrà non far rumore: da una parte, insomma, ci sono gli Armani, gli Zegna o i Loro Piana, per citare alcuni nomi eccellenti che sfilano solo sulle passerelle e non sui listini, rifiutando i pacchi di milioni (o anche più) offerti dai giovanotti in doppiopetto o in tailleur che Goldman Sachs, Morgan Stanley o altri Big spediscono a Milano e Biella per tentare di convincere le grandi firme indipendenti (ormai poche) a cedere al fascino della “creazione di valore”, cioè di una montagna di quattrini.   Dall'altra le aziende che, vuoi per necessità, vuoi per libera scelta hanno fatto il grande salto: il clan Ferragamo, ma più ancora i fratelli Bulgari, approdati alla corte di Lvmh. Per non parlare di Patrizio Bertelli e  Miuccia Prada, ambiziosi primi della classe sia nello sport che nella passione per l'arte ma che, pare dire Armani, nel momento decisivo hanno chinato il capo di fronte alle esigenze delle banche creditrici. Altro che leader, sembra accusare Armani. D'ora in poi Miuccia, così come Ferragamo, dovrà render conto ai soci prima che ai clienti. Ovvero a qualche occhiuto ragioniere in grisaglia che di rigore e di stile se ne intende come un imbianchino in visita agli Uffizi. Ben venga il divino Giorgio, perché ancora una volta ha aperto un dibattito importante e vero, senza inutili fronzoli.  Ma rivolto a chi? La sensazione, tanto per essere maligni, è che Armani parli più a sé stesso e ai suoi probabili eredi piuttosto che all'esterno. Nessuno discute, come ha scritto con orgoglio Armani, che la sua azienda non abbia alcun bisogno dei soldi della Borsa. Anzi, è certo che la Giorgio Armani spa trae più vantaggio dal genio dello stilista piacentino (e dei suoi collaboratori più fidati) quando disegna un tailleur o reiventa per l'ennesima volta la giacca maschile piuttosto obbligare il suo fondatore a finire nella gabbia dei cda, delle trimestrali o degli incontri con gli investitori che esigono numeri, mica talenti. Ma  questo vale finché a guidare l'impero c'è lui. Che accadrà un domani quando, Dio voglia il più tardi possibile, ci vorrà un successore? Per carità, la Borsa non è il solo modo per favorire il passaggio tra generazioni. Ma può aiutare, soprattutto quando la tribù s'allarga. In quel caso, il controllo di un occhio esterno può favorire una “staffetta” tra generazioni più controllata. O, al contrario, aumentare le tentazioni di chi sente il fascino del denaro più che delle passerelle. Intendiamoci, come dimostra il caso di Hermès, gli eredi possono andare in Borsa e difendersi lo stesso dalle tentazioni miliardarie di Bernard Arnault che invano cerca di “corrompere” il fronte dei famigliari (ma prima o poi, probabilmente, ci riuscirà). Di certo, l'approdo in Borsa rende più sexy e immediato il richiamo dei soldi. Par di capire, a legger le parole di Armani, che il messaggio dica: finché ci sono io niente Borsa. E, cari ragazzi, se farete le cose giuste non ci andrete nemmeno voi.  Meglio esser liberi piuttosto che difendere da Arnault, che è tanto gentile. Ma  comunque un padrone. La riflessione di Armani, insomma, non è tanto (o solo) una stilettata nei confronti dei colleghi che non sono riusciti a resistere alle tentazioni, ma una riflessione a tutto campo che vale per tutto il made in Italy. E su cui è giusto discutere, prima ancora che dividersi in campi avversi. Proviamoci. 1) In gioco è la parte più dinamica del nostro sistema industriale. L'economia italiana non ha ancora recuperato né il fatturato né i margini del 2007, l'ultimo anno prima della grande crisi. Con un'eccezione: il sistema lusso, quello che comprende la filiera della moda-abbigliamento, compresi gli accessori che fanno la diversità del “made in Italy”- Qui, grazie agli acquisti in arrivo da Oriente (e dal Sud America) l'Italia è già ripartita. Ma, accanto a chi ce l'ha fatta, sia tra le aziende quotate (Tod's, Luxottica )  che non (per fortuna i marchi sono molti) sono state numerose le vittime, “colpevoli” di aver dato più retta ai consigli di finanzieri a caccia di profitti. Vedi Mariella Burani o Ittierre, per far dei nomi. 2) L'Italia sconta il connubio impossibile tra finanza e creatività- Non è un matrimonio impossibile. François Pinault ha garantito un futuro a Gucci, rispettando le caratteristiche dell'azienda sopravvissuta all'uscita del suo genio, Tom Ford. Arnault ha fatto incetta di marchi eccellenti, senza chinarsi ai capricci dei creativi (esemplare la rapidità con cui ha cacciato Galliano dopo le sue follie antisemite) ma senza invadere il loro campo d'azione. 3) In Italia, ahimé, quel matrimonio è saltato ai tempi di Hdp, “figlia” del sistema Mediobanca. Di chi la colpa? Quel libro va ancora scritto. Ma i “ragionieri” in arrivo da piazzetta Cuccia non diedero buona prova di sé. Ora non ci restano che tentativi in chiave minore, tipo il fondo Charme di Luca di Montezemolo, mentre Diego Della Valle, uno che di Borsa ne capisce come di scarpe, preferisce guardare al Corriere piuttosto che ad altre griffes. 4) Perciò, il magnifico grido d'amore di Giorgio il divino (“voglio una moda libera”) rischia di essere effimero. La Borsa non è il Santo Graal ma nemmeno la mela tentatrice.  Lo capisca il “vecchietto arzillo”, come si autodefinisce Armani (associandosi, non a caso a Giovanni Bazoli, così etichettato da Della Valle assieme a Cesare Geronzi). di Ugo Bertone

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