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Nei kebab sotto casa arruolano le reclute per la guerra santa

Volantini che lodano il jihad distribuiti nei take away di Bologna insieme ai panini. Li firmano proprio i fondamentalisti / Morigi

Andrea Tempestini
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Quando si ordina un panino al kebab a Bologna, senza saperlo si paga anche un supplemento per la guerra santa. Quel dépliant dal titolo «Conoscere l'Islam e i musulmani», che a prima vista sembra un gentile omaggio della casa, non è un semplice corrispondente coranico dell'happy meal. Spiega che il jihad «dal punto di vista bellico è un diritto all'esistenza e alla libertà quando l'oppressione si presenta». È una versione, riveduta e corretta in senso radicale, di un opuscolo omonimo distribuito dall'ambasciata saudita. A fare concorrenza agli sceicchi sono i militanti della Jamaat-e-Islami, gruppo fondamentalista egemone all'interno della comunità bengalese in Italia, che a Bologna ha fondato e gestisce il Muslim Center di via Zago. L'IMPERO BENGALESE Silenziosamente, la popolazione di immigrati dal Bangladesh in breve tempo ha raggiunto le 85mila persone sul nostro territorio nazionale, crescendo a ritmi impressionanti. Non più tardi del 2007 erano appena a quota 40mila. Ovviamente ne basterebbe meno dell'1% per creare una minaccia alla sicurezza nazionale. Ma non tutti i bengalesi in Italia fanno parte della Jamaat, che tuttavia, grazie ai finanziamenti della casa madre, si è trasformata in una potenza del commercio ambulante e abusivo di bigiotteria e gadget. In pratica, acquistando dai vucumprà sulle spiagge, si potrebbe contribuire a diffondere il fondamentalismo islamico. Del resto il Bangladesh è uno dei Paesi inseriti nella lista nera della Financial Action Task Force perché il livello inadeguato di trasparenza finanziaria e l'insufficiente monitoraggio delle attività di finanziamento al terrorismo. E la Jamaat ne approfitta, costituendo con i proventi delle proprie attività illecite, che sfuggono alla lotta contro l'evasione fiscale, un patrimonio immobiliare a Palermo, dove la comunità bengalese conta circa 8.500 membri. E proprio dal capoluogo siciliano, dove sorge una sala di preghiera, si diffonde in tutt'Italia lo sforzo “missionario”. La loro guida è un imam appartenente al Bangladesh Islami Chhatra Shibir, il movimento giovanile della Jamaat. I loro aderenti romani, che fanno capo al Muslim Centre di via Ceneda, hanno fatto una breve comparsa anche nella Capitale, l'ultimo Venerdì Santo, pregando Allah davanti all'altare della Patria. Gesto provocatorio, unito ad accuse nei confronti delle autorità italiane a loro dire colpevoli di non concedere il diritto di culto ai musulmani, che si è concluso con la pretesa che il Campidoglio pagasse le utenze di luce e gas alla loro pseudo-moschea. LA JAMAAT-E-ISLAMI Chiedono finanziamenti pubblici, senza rivelare che servono a dotarsi di ogni comfort per meglio comporre i loro inni alla lotta contro gli infedeli. Nel frattempo diffondono la dottrina fondamentalista, confidando nel fatto di non essere ancora annoverati nella lista dei gruppi terroristici internazionali. Ma da diversi anni il Belgio e i Paesi Bassi negano il visto d'ingresso agli esponenti della Jamaat-e-Islami, il Bangladesh due giorni fa ne ha incriminato il leader, Delwar Hossein Sayedee, per genocidio, omicidio e violenza carnale, crimini contro l'umanità, saccheggio, rogo e conversioni forzate all'islam per fatti avvenuti quarant'anni fa. E nel Regno Unito, l'altra roccaforte europea della Jamaat, il governo di David Cameron ha appena varato la nuova Strategia di prevenzione del terrorismo, che si propone di «sfidare le idee estremiste (e non-violente) che sono anch'esse parte di un'ideologia terroristica». Solo da noi, per ora, i fondamentalisti proliferano indisturbati, radicalizzano e reclutano perfino nei chioschi di kebab. di Andrea Morigi

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