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Botte e sprangate ai poliziotti Li chiamano poveri profughi

Gli extracomunitari del centro di Bari hanno paralizzato strade e ferrovia della città. All'ospedale 35 agenti / SENALDI

Costanza Signorelli
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Sono senza dubbio disperati, gli extracomunitari del centro d'accoglienza di Bari che ieri hanno paralizzato strade e ferrovia della città e mandato all'ospedale 35 poliziotti;  sul fatto che siano davvero profughi è lecito però nutrire qualche dubbio. Anche perché, a dirla tutta, più che del profugo che commuove e ispira solidarietà, hanno il comportamento del teppista cui tutto è dovuto e tutto si perdona in quanto vittima della società. L'azione è stata da professionisti: sapevano dove prendere le armi, dove andare, cosa fare, cosa chiedere. I rivoltosi lamentano di essere reclusi da mesi in attesa di permessi di soggiorno e diritti d'asilo che non arrivano mai, ma quello che non riescono a spiegare è perché  avrebbero diritto a ottenerli. Gli immigrati si dicono di provenienza libica, e pertanto titolari del diritto d'asilo ma non hanno uno straccio di documento che ne provi la nazionalità. Circostanza singolare, visto che la prima preoccupazione di chiunque abbandoni il proprio Paese devastato da un conflitto dovrebbe essere quella di portarsi dietro il passaporto sulla base del quale dimostrare lo status di rifugiato. Più probabile quindi siano in parte clandestini provenienti dall'Africa Centrale, che alla prima bomba Gheddafi, come promesso, ha fatto imbarcare per vendetta alla volta delle nostre coste. Altri sono i famosi galeotti scappati dalle carceri di Bengasi dopo la rivolta; altri ancora, immigrati in Libia che perso il lavoro sono partiti in cerca di fortuna.   Se si parte da queste premesse, diventa più facile  capire gli scontri di ieri. L'intento di quanti oggi si rivoltano era chiaro fin dall'inizio e "Libero" lo denunciò già quattro mesi fa, quando scrisse che l'effetto più evidente della guerra al raìs sarebbe stato il tentativo di migliaia di giovani africani, senza arte né parte, molti anche violenti e dai dubbi precedenti penali, di approfittare della guerra per sbarcare in Italia.  Una volta qui, il programma è scritto e confida nelle maglie larghe della nostra legge e nella solidarietà pelosa di chi cavalca il loro dramma per far battaglie politiche. I ribelli non hanno documenti, e pertanto non si può dar loro il permesso di soggiorno, ma neppure si può rimandarli via (come si dovrebbe e come loro sanno che non faremo), perché in Libia c'è la guerra e nessuno sa quali siano i loro effettivi Paesi d'origine. A quel punto  aspettano finché la mancata soluzione del problema diventa insostenibile e loro passano dalla parte della ragione. Il centro d'accoglienza incassa  19 milioni di euro l'anno per la  loro presenza e più è sovraffollato, più denaro arriva. Ecco il momento per far salire la tensione nei centri d'accoglienza fino a farli scoppiare, quindi  riuscire a darsi alla macchia se non addirittura a creare una pressione sociale tale da ottenere sanatorie e documenti senza troppe difficoltà. In questo quadro, il miglior alleato dei rivoltosi è Vendola, che ancora una volta si segnala per opportunismo, retorica  e inconcludenza. Ai tempi dell'ondata di immigrati si era speso per l'accoglienza, rilasciando accorate e commoventi dichiarazioni. Adesso approfitta della rivolta per attaccare il governo. Vendola sorvola sul caos che i rivoltosi hanno procurato nella sua città  d'altronde, ormai è noto, pur essendo governatore le questioni locali non lo scaldano. Chiede invece che chi ha sprangato i poliziotti sia premiato con un immediato permesso di soggiorno che  garantisca loro di scorrazzare per la città e portare a termine l'opera.  Insomma, se non chiama i rivoltosi "fratelli sprangatori" come fece con i rom a Milano nel giorno della vittoria di Pisapia, quando all'indomani della chiusura del campo nomadi del Triboniano promise ai “fratelli rom” alloggi pubblici, poco ci manca. Forse si è morso la lingua nel timore di ricevere lui una sprangata in testa. Non dagli immigrati, ma dai suoi concittadini. di Pietro Senaldi

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