Provaci ancora, Tinto Brass: non è finito dopo la malattia

Rosa Sirico

Dopo aver superato l’ischemia che lo ha tenuto due anni lontano dal set, da ottobre Tinto  Brass  sfida se stesso e punta ad un folgorante ritorno sul grande schermo. La “Brassmania” ricomincia con una  ritrovata voglia di vivere, e un voyerismo capace di legare arte ed erotismo in Ziva, l’isola che non c’è, ambientato durante la seconda Guerra Mondiale in Dalmazia, dove però per motivi logistici saranno effettuate solo alcune riprese (il resto sarà girato in un’isola del Sud Italia). Protagonista una bella donna che fa la  guardiana di un faro, dove da due anni aspetta il ritorno del marito dalla guerra. Nell’attesa conosce alcuni militari e cerca di convincerli a disertare. La donna è interpretata da Caterina Varzi, l’avvenente avvocato e psicanalista che  il regista portò sul grande schermo in Hotel Courbert, il corto di 18 minuti presentato (nel 2009) alla Mostra del Cinema di Venezia: «Tinto aveva perso la moglie, era depresso» racconta la Varzi «accettando quel ruolo ho rischiato di essere radiata dall’Albo, ma non me ne pento. Sono contenta di averlo sostenuto e aiutato anche nel momento più difficile della malattia. La sua memoria era completamente distrutta, l’unica cosa che conservava era l’ironia. Ora è tutto passato: legge scrive e ascolta la musica. Ed è una persona che si lascia amare». Milanese di nascita, ma veneziano di adozione, Brass  rimane  il regista  più emblematico della storia del cinema. Negli anni ’60 ha accantonato la laurea in giurisprudenza  per raccontare le “voglie” degli italiani scatenando le ire delle femministe e del clero. Ma anche degli ipocriti, che prima blateravano sentenze e poi, attratti dai tabù dell’erotismo, andavano a vedere i suoi film nei cinema di periferia sperando di non essere riconosciuti. Di questi scandali anche  la stampa rosa si è cibata per anni. Brass, cosa pensa delle  polemiche sul film di Francesco Patierno “Cose dell’altro mondo”, che verrà presentato al festival di Venezia? Crede alla teoria che senza il lavoro degli stranieri, l’Italia andrebbe a picco? «In un certo senso non sono dello stesso avviso. Gli italiani nel dopoguerra sono stati capaci, con pochi mezzi, di ricostruire il loro Paese. Che altro si può aggiungere? È evidente che oggi gli stranieri fanno dei lavori sostanzialmente utili, quelli che gli italiani non vogliono più svolgere. E li ringraziamo. Ma il Veneto va tutelato e non ci deve essere un razzismo al contrario nei nostri confronti. Tanti anni fa, quando vedevo il flusso di gente che sbarcava a Venezia, mi ero già chiesto: tra 20 anni esisteranno ancora i veneziani? Speriamo di sì». La incuriosisce il film di Patierno? «Da buon veneziano andrò a vederlo. Sono sempre presente alla  Mostra del Cinema e continuerò a farlo fumando il mio immancabile sigaro. In questa edizione ci vado da ospite, ma nella prossima spero di tornarci con un mio film».  E allora parliamo del suo film più volte annunciato “Ziva, l’isola che non c’è”. È la rivincita di Brass? «Sono pronto a rimettermi in discussione con una storia che avrà la  location  in un’isola del sud Italia e gli interni saranno girati in un faro». Cosa promette, lo stesso filone del passato? «No, oggi sono un altro Brass, un uomo nuovo. Nella mia filmografia il cardine resta l’erotismo,  ma voglio indagare anche altri temi che sono espressione di libertà». Un ruolo determinante lo avrà Caterina Varzi. Lo ammetta: è entrata nella sua vita come un uragano... «Sono stato fortunato ad averla vicino, mi ha dato la forza giusta  per superare la malattia. Tra noi c’è una grande solidarietà e un sodalizio umano ed artistico. Ora sta terminando di scrivere la mia biografia che verrà pubblicata in un libro. È un  racconto  fedele, fatto da chi mi conosce bene». Anche Max Zanin, che è stato il suo aiuto regista, sta girando il primo film documentario sulla sua vita, prodotto dalla Think’s. Cosa eviterà di raccontare? «Non nasconderò di aver amato il cinema e le belle donne. Parlerò dei miei film e delle attrici che ne sono state le protagoniste e non avrò pudore nel raccontare anche la mia malattia. Perché la vita vale sempre la pena di essere vissuta». Scegliendo tra i 30 titoli dei suoi film a quale punterebbe per un remake? «L’urlo, girato nel 1968, un film che mi è particolarmente caro. La trama è scritta senza pregiudizi o pudori e mette  in mostra le scelte di una donna. Mi piacerebbe che fosse riproposto all’attenzione del pubblico». Donne, come  nel 1983 quando ha girato “La chiave”, tratto dal romanzo dello scrittore giapponese Tanizaki Jun’ichirò. La protagonista era Stefania Sandrelli ma prima di lei quel ruolo avrebbe voluto affidarlo a Sophia Loren. Vero o falso? «Sì, ci avevo pensato, ma il produttore Carlo Ponti quando lo seppe si scandalizzò: “Una parte così a mia moglie?” - mi rispose -  “cosa contiene il suo cervello, lo sperma?”. Mi è sembrato geniale! Anzi, come dicono i francesi, puro divertissement». intervista di Annamaria Piacentini