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Lo sciopero schianta Bersani Pd in piazza, ma vince Nichi

Pier Luigi si fa trascinare dalla Camusso, rompe con Fioroni e Veltroni e marca a uomo Di Pietro e Vendola. Che però trionfa

Giulio Bucchi
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Ieri ho fatto a botte con un tizio e gli ho rotto una mano: mi ci è voluta tutta la faccia, ma ce l'ho fatta. Al netto dei cazzotti, la celebre battuta di Woody Allen rende alla perfezione l'idea di quale sia stato per il Partito democratico il rapporto costi/benefici della partecipazione allo sciopero generale della Cgil: un investimento tanto doloroso quanto spropositato cui fa fronte un guadagno minimo. Che l'investimento sia stato ingente e che la decisione di farlo non sia stata indolore lo si capisce in primo luogo dalla tempistica: l'annuncio dell'adesione del partito fatto arrivare nel pomeriggio della vigilia dello sciopero (altre sigle della coalizione di centrosinistra l'avevano fatto a convocazione ancora calda) denota quanto la discussione in merito sia stata vieppiù approfondita ed abbia impiegato fino all'ultimo momento utile. Che tradotto significa che, sull'opportunità di schierare il partito al fianco della Cgil, al Nazareno ci si è scannati fino all'ultimo. È d'altronde notorio che la linea di Corso Italia faccia storcere il naso a più di un big del Pd, da Beppe Fioroni (con relativo corpaccione ex popolare al seguito) a Walter Veltroni, rimanendo maggioritaria solo nella componente ex Ds. Lo scontro sotterraneo tra le due anime andava avanti da giorni, col segretario Pier Luigi Bersani a barcamenarsi e a trincerarsi dietro capolavori di equilibrismo verbale per dire che il Pd appoggiava lo sciopero ma anche no. Fino a ieri l'altro, quando l'esigenza di non lasciare spazi scoperti ha prevalso, convincendo il leader a forzare la mano mettendo la bandierina del Pd sullo sciopero generale. Partito spaccato - Non scoprirsi a sinistra significa non regalare la piazza ai competitori interni (leggi Nichi Vendola e Tonino Di Pietro), virtuosi del drenaggio voti: rimuoversi autonomamente dal ventaglio di offerte per l'elettorato di sinistra presente in piazza ieri sarebbe stato estremamente rischioso. Il problema è che per scongiurare l'eventualità si è pagato un prezzo molto alto: Fioroni e i suoi - da sempre più vicini alla sensibilità di Cisl e Uil - hanno fatto fatica a digerire la decisione di Bersani, ultimo di una lunga serie di bocconi amari. Si obietterà che spaccare il partito è stato doloroso ma necessario, avendo la mossa scongiurato la temuta scopertura a sinistra. E qui entrano in gioco le cronache di ieri. Che raccontano di un Bersani non propriamente osannato dalle folle, al contrario di Vendola e persino di Di Pietro. Per dare un'idea, mentre il governatore pugliese era assediato dai manifestanti che, alieni al culto della personalità come nella migliore tradizione della sinistra mondiale, lo incensavano a colpi di «salvaci tu» e «sei l'unica speranza», il grande capo del Pd veniva contestato da altri manifestanti al grido di «sei peggio di Berlusconi» e «devi cacciare Penati». E se far scoppiare il Vietnam nel partito per incassare un bagno di folla (e di voti) ci può stare, farlo per guadagnare zero consensi e regalare la passerella alla concorrenza interna è qualcosa che va oltre l'autolesionismo. Sindacato flop - Anche perché, per capire che lo sciopero di ieri si sarebbe rivelato poco redditizio, non è che ci volesse il divino Otelma. Auspici foschi che la realtà si è premurata di correggere al ribasso, sia dal punto di vista organizzativo che da quello politico. Circa il primo aspetto, la presenza della sola Cgil faceva presagire una partecipazione non propriamente di massa. Ebbene, i dati dell'adesione allo sciopero sono stati impietosi: un lavoratore su dieci a braccia incrociate, con rilevanti diserzioni anche tra gli iscritti della Cgil medesima ed alcuni numeri - come quello relativo alla partecipazione del pubblico impiego: nemmeno il sette per cento - ai limiti del grottesco. Per quanto riguarda l'aspetto politico, invece, la tempistica dell'ultima modifica alla manovra certifica l'irrilevanza di corso Italia. Perché un conto è sapere che il governo non tiene in granché conto le rivendicazioni del sindacato rosso, un altro è vedere Palazzo Chigi che a sciopero in corso assesta una manata - formidabile ancorché figurata - alla Cgil mettendo mano a previdenza e fisco. Pd e Cgil chiudono dunque la giornata con un bilancio identico: investimento massimo e risultato minimo. E poi c'è chi dice che la cinghia di trasmissione partito-sindacato non funziona più come una volta. di Marco Gorra

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