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Per la Comencini è notte fonda: risate e fischi per il film

Venezia, 'Quando la notte'. La regista progressista è al tramonto. Ma si difende: "I mugugni? Una cosa inaudita. Non capite"

Andrea Tempestini
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Cristina Comencini aveva scritto il romanzo, poteva accontentarsi. Si intitola Quando la notte e ha un incipit rivelatore: «La bistecca sulla piastra, meglio tenere la finestra aperta». Sembra la presa in giro di una poesia giapponese. Il film è peggio. Anche perché leggendo non si è obbligati a vedere i bulbi oculari di Filippo Timi, che sembra reduce da una seduta di Cura Ludovico direttamente da Arancia Meccanica, o Claudia Pandolfi a cui nessuno ha avuto il coraggio di dire: «Cara, guarda che non stiamo girando Distretto di Polizia». Povera Claudia, deve averla indotta in errore la regista quando ha dichiarato: «Nella prima parte si ha la sensazione di vedere un thriller, è così perché secondo me i thriller nascono dalla vita quotidiana che si porta con sé angoscia». In effetti vedere Quando la notte, in concorso ieri alla Mostra del Cinema di Venezia, è stata un'esperienza angosciante. Ecco la storia. Marina (la Pandolfi) è un'aspirante Anna Maria Franzoni che con il figlio di due anni si trasferisce in una casupola alle pendici del Monte Rosa. Il piccolo ha dei problemi, non dice una parola ma quando piange è uno strazio, così una sera la mamma decide di facilitargli il sonno tentando di rompergli la testa. Peccato che sotto i due viva una guida alpina di nome Manfred (Timi), un pezzo d'uomo taciturno e allegro come una cremazione. Costui ode un tonfo provenire dall'alto, poi non sente più nemmeno un raglio da parte del pupo. Astuto, capisce che rischia di trovarsi in un'altra Cogne e magari - visto che sembra un rifugiato slavo - finisce pure che danno la colpa a lui, dunque sale e impedisce che qualcosa di peggio possa accadere. Sfumato il sogno di sedere a Porta a porta con un plastico tutto per lei, Marina non trova di meglio che innamorarsi di Manfred, lasciato tempo addietro dalla moglie e dalle figlie. Le quali, detto sinceramente, hanno fatto bene, poiché la filosofia del nostro amico alpinista (citiamo dal romanzo) è la seguente: «Basta un paio di scarpe per ogni stagione. Non c'è bisogno d'altro. (…) I bambini escono in maglietta, un pullover a testa. Sapone da bucato anche per i capelli». La consorte è stata fin troppo generosa ad andarsene senza ucciderlo. Per farla breve: la quasi mamma killer Marina e la guida Manfred si innamorano, si incrociano qualche volta sulla teleferica e si guardano storditi, lui ha un incidente in cui quasi ci resta secco (e abbiamo la definitiva conferma che il personaggio della Pandolfi porta sfiga), poi non si vedono più per parecchi anni. Infine, lei - ringalluzzita e madre per la seconda volta - ritorna e con micidiale ritardo si decide a darla al povero montanaro ormai zoppo e invecchiato, ma evidentemente ancora desideroso di attirarsi delle grane. Titoli di coda. In sala a Venezia si udivano sghignazzi, fischi, qualcuno ha gridato «Vergogna!». E in conferenza stampa la Comencini ha avuto un sussulto da vera democratica, del tipo: se il film non vi piace è perché siete coglioni. «In luoghi come i festival spesso le emozioni violente sono rifiutate. Restano un tabù. Ci vuole coraggio ad avere emozione», ha detto. Ma era sicura che fossero stati gli uomini a fischiarla, quei bruti: «Non credo che il rifiuto sia arrivato dalle donne». Dopo tutto lei è la leader del movimento antiberlusconiano Se non ora quando?, è una sincera progressista, come si permettono di criticarla? E chissà che dietro non ci sia il complottone politico: «Ridere durante il film è una cosa strana. Inaudita. Civiltà vorrebbe che si guardi con rispetto e poi si scriva quello che si vuole», ha sibilato. Poi, da vera femminista, ha fatto intervenire il marito, il potente produttore di Cattleya Riccardo Tozzi: «Va bene se al termine della pellicola ti tirano i pomodori; ma le risate durante lo svolgimento sono una forma di violenza, che modifica la percezione di tutto il pubblico. Non so se è un episodio spontaneo, tendo a non essere dietrologo: certo Muller e Baratta dovranno porsi il problema di questo tipo di proiezioni». Mancava solo che dicesse: voi non sapete chi sono io! Abbiamo appreso, quindi, che durante i film bisogna essere inespressivi, sembrare mummie, spalancare gli occhi e non tradire mezza emozione. In pratica, bisogna comportarsi come i protagonisti del film della Comencini. Comunque, andatelo a vedere. Guardatelo bene, poi pensate che il Ministero dei Beni culturali ha giudicato di «interesse culturale» questa pellicola e ha approvato un contributo di 400mila euro. Infine tornate a casa e auguratevi che la commissione ministeriale che ha deciso di concedere i fondi sia chiusa nella baita con la mamma killer. E che Timi, per Dio, non intervenga. di Francesco Borgonovo

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