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E Lapo è di nuovo in divieto: Un vizietto o uno spot Fiat?

Rampollo incorreggibile. Dopo i binari di Milano, il carico-scarico di Torino. Errare è umano, perseverare è pubblicitario...

Andrea Tempestini
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Errare è umano, perseverare è Lapo. Torino, ieri pomeriggio, davanti all'ingresso del Principi di Piemonte. Discreto cinque stelle lusso in cui ogni bon vivant sabaudo ama scendere a prendere l'aperitivo. Senza dare nell'occhio. Ma non se sei il rampollo genialoide di famiglia Agnelli, e il tuo guardaroba lo hai preso - non copiato, ma fisicamente rimosso - dall'armadio del nonno (un certo Gianni). Insomma, se sei Lapo Elkann, non ti limiti ad arrivare in taxi. Più creativamente, attracchi il tuo panfilo-suv maculato come un coguaro con la mimetica nel primo buco disponibile. Ieri si trattava del carico-scarico merci. Il giorno precedente, sotto la Madonnina, erano i binari del tram a due passi dal Duomo. Copione più o meno uguale. Lapo arriva, alloggia la quattroruote in scioltezza come si getta un mazzo di chiavi sul tavolo di casa, dopo un po' torna e se ne va. Poco importa se nel frattempo una delle linee più trafficate di Milano rimane bloccata per mezz'ora. Gli insulti e le minacce di tagliargli i capelli vermigli (e magari qualcosa d'altro) non lo sfiorano nemmeno. Il sorriso beato che disarmerebbe un navy seal è marchio di fabbrica come gli occhiali da sole venduti a svariate migliaia di euro. Lapo è questo, farebbe perdere le staffe a un monaco zen. Lo stesso monaco al quale subito dopo direbbe «la tua stola è molto cool, very essential» dandogli la mano. Insomma, ieri Lapo ci è ricascato, a casa propria. Questa volta per bere un bicchiere di bollicine con qualche amico prima di recarsi nel nuovo stadio-bomboniera della Juve. Perché Lapo odia tutto ciò che è banale, massificato, ma il tifo per la Signora è sacro, lo porta pure tatuato sul braccio. E per la Signora va bene anche partecipare al rito collettivo che più collettivo non si può: l'aperitivo prima dello stadio. Blazer blu, pantalone bianco, pochette abbinata. Un Lapo meno metropolitano rispetto al metrosexual visto a Milano 24 ore prima è sceso dal medesimo carroarmato che sembra uscito da “Commando” con Schwarzenegger, salvo che questo ha interni in pelle ocra e tettuccio in vetro. Foto, strette di mano, la mano di Lapo a lisciarsi il pelo ingellato. E lì vicino il mostro turbo diesel che deborda dagli spazi segnati a terra. Tutto come copione, con tanto di paparazzo che scatta a ripetizione dall'alto. E allora, dopo l'effetto déjà vu, prende corpo un interrogativo. Vuoi vedere che è tutto troppo perfetto nel suo dis-ordine? Come una delle tipiche t-shirt lapesche: strizzate, scarmuntite, spiegazzate, ma così maledettamente cool, così irrimediabilmente «giuste». E allora uno guarda meglio  il suvvone che - come la ragione sociale del Lapo-pensiero prevede - è privo di marchio. No brand, è la filosofia di vita e d'azienda del rampollo Fiat. Già Fiat, la Fabbrica Italiana Automobili Torino convolata a nozze - ha officiato Marchionne - con la Chrysler. Brand americano che ha nel suo portafoglio la Jeep, storico produttore di robustissimi of road, come il Grand Cherokee. Guarda caso copia sputata del mezzo che Lapo ama parcheggiare a caso in mezza Italia. Caso o sgamatissima operazione di marketing? Vuoi mettere la pubblicità per un marchio di famiglia se il rampollo si fa multare a bordo di un esemplare, ancorché “lapizzato”? Diavolo di un Lapo. di Edoardo Cavadini

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