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11 settembre, 2001-2011 L'inferno vissuto in diretta

Dieci anni dopo le Torri Gemelle. Nel pomeriggio italiano assistemmo all'orrore di New York capitale del mondo. Fiamme, morte e distruzione

Andrea Tempestini
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Certo che li ricordo bene e mi si sono come conficcati nell'anima quei minuti del nostro pomeriggio dell'11 settembre 2001, e mentre a New York stava avviandosi la giornata, il momento in cui siedi al tuo tavolo di lavoro o saluti il tuo collega di ufficio o hai appena finito di prendere il caffè che dà benzina al tutto. Quei minuti italiani attorno alle 15 in cui io e la mia amica Elena Stancanelli stavamo uscendo dalla libreria francese di via Ripetta a Roma - avevo comprato non ricordo quale libro e a lei avevo regalato un romanzo di Patrick Modiano, uno scrittore francese che amo molto -, e proprio in quel momento si bloccò innanzi a noi la motoretta di una ragazza amica di Elena, e lei era trafelata ma trafelata non è la parola giusta, e ci disse che a New York era successo l'incredibile, che tutti i canali televisivi ne stavano dando le immagini, che due aerei al modo di “missili” erano entrati dentro le due Torri, e non mi sembra che al momento del suo racconto le Torri fossero ancora andate giù. Io e Elena ci mettemmo a correre verso casa mia, una casa non lontana da Campo dei Fiori. Dieci minuti di corsa senza dirci nulla, l'ascensore, il terzo piano, l'accendere il televisore nella stanza dove entravano di solito gli amici in visita e gli ospiti a cena. Il televisore si accende, ed ecco che arriva l'inenarrabile, roba che neppure nel più sfrenato dei film dell'orrore, distruzione e fiamme quali mai li avresti immaginato in un giorno qualsiasi del mondo e della sua storia, roba che la guardavi in silenzio e non ci credevi a quello che stavi vedendo, e c'era la voce di Enrico Mentana che scandiva il tutto, e quello che vedevi non lo capivi appieno, tanto era fuori dalla portata della tua immaginazione abituale. Quell'inferno al novantesimo piano di due edifici simbolo della capitale del mondo, una città in cui siamo milioni e milioni quelli che ci si sono trovati come a casa propria, una città che offre qualcosa a tutti: a tutti, non solo ai ricchi e riccastri. L'inferno dentro lo schermo, e non ricordo se quando ho acceso il televisore una delle due torri era già andata giù. Né capii all'istante che cos'erano quei puntini neri attaccati alle finestre e che poi precipitavano giù a una velocità che un piano dopo l'altro diventava più forte. O meglio lo capivo, ma non ce la facevo a capirlo. Era troppo, e non ho mai smesso di pensarci in questi dieci anni. Furono circa in 200 - uomini e donne - a mollare la presa dalle finestre cui si erano disperatamente aggrappati, a scegliere di piombare nel vuoto anziché farsi avvampare vivi dal fuoco che stava irrompendo su ciascun piano delle due Torri, entro a ciascun appartamento e ciascun ufficio, e io mi immagino quegli uomini e quelle donne che chiudono le porte, che forse hanno il tempo di mettere degli asciugamani bagnati a tentare di ostacolare il fuco che entra da sotto, che sperano che qualcuno arrivi a salvarli, e invece il fuoco brucia e avanza, e loro aprono la finestra, hanno ancora pochissimi istanti da vivere, e finché il fuoco arriva alle loro mani e alle loro unghia e allora giù, che cosa hanno avuto il tempo di pensare in quei pochi secondi del tuffo dentro la morte? La loro morte. E quelli che stavano correndo giù lungo i novanta piani e che non ce la fecero ad arrivare a tempo sul marciapiedi di New York, e i pompieri che a occhi sgranati montavano su a centinaia nella speranza di dare un aiuto, e a un certo punto le scale cominciarono a tremare per poi briciolarsi. E tutto andò in rovine, una montagna di pietre e cemento e resti della vita quotidiana di tutti i giorni e furono tantissimi i corpi di cui non si ritrovò più nemmeno un indizio. Ci volle più di un anno per togliere quella montagna di pietre e cemento dal cuore spezzato per sempre di New York. E senza dire di quel che dové accadere su ciascuno dei quattro aerei dirottatti: piloti e hostess sgozzati con il coltellino di plastica; un'hostess sopravvissuta al massacro che prova a telefonare alla sua compagnia a raccontare quel che è successo e che ha il tempo di vedere l'aereo che sta per schiantarsi sulla Torre e di esclamare un «My God!»; i passeggeri che capirono quello che stava accadendo e che mandarono un sms di addio a qualcuno dei loro cari; e quelli del volo su cui ci fu una colluttazione con gli assassini e uno dei passeggeri gridò ai suoi compagni un «Let's roll it» a dire che dovevano fare scorrere il carrello delle bibite contro la porta della cabina di pilotaggio dove si erano asseragliati i boia, e c'è un film americano che immagina e racconta questo dramma. E il lungo racconto dello scrittore inglese Martin Amis in cui si immagina gli ultimi momenti di Atta a casa sua prima di dirigersi all'aeroporto, le preghiere, la ricerca di una tranquillità interiore “al cento per cento”, le abluzioni a renderlo puro quando si presenterà innanzi a un Allah che lui si immagina tale che gli farà le congratulazioni. E l'espressione di gioia del capo dei boia in quel video che lo riprende nel momento in cui gli dicono che il massacro è riuscito a perfezione, e peccato che Bin Laden sia stato ammazzato come un cane una volta sola e non tremila volte quanti sono i morti dell'11 settembre. E quel film a episodi di Alain Brigand, che alcuni contestarono e che a me invece piacque molto, dove undici diversi registi raccontarono ciascuno un personaggio o una situazione o uno spicchio di mondo collegati al dramma delle due Torri, Ed è bellissimo l'episodio che ha per titolo “India” e che è stato diretto da Mira Nair, episodio che ricalca una storia reale. Quella di una donna pakistana che dal giorno degli attentati non ha più notizie del figlio, e la Cia e l'Fbi la interrogano ripetutamente perché sospettano che il figlio musulmano fosse tra gli attentatori e finché non scoprono che era morto nel prestare soccorso alle vittime. Era un musulmano come Atta, molto diverso da Atta. A lui sì che Allah - se c'è - deve aver fatto le congratulazioni quando se l'è visto arrivare. di Giampiero Mughini

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