Un trappolone per il Cavaliere: da vittima diventa corruttore

Andrea Tempestini

Com’è tranquillizzante il lavoro di certi giudici. Basta seguire una semplice regoletta e poi crearci una cornice intorno. La regoletta è: nel dubbio, contro Berlusconi. È la rielaborazione, o meglio  lo stravolgimento, che quando c’è di mezzo  il premier da tempo la magistratura italiana attua  del principio giuridico che vuole che nell’incertezza si decida sempre a favore del sospettato. L’ultima applicazione è  la sentenza del Tribunale del Riesame che ieri ha scarcerato Tarantini, accusato di estorsione ai danni del Cavaliere, e ha invece invitato i magistrati di Bari a incriminare il premier per aver spinto l’imprenditore pugliese a rilasciare false testimonianze ai giudici. E così, in ossequio al suddetto principio di ormai consolidata scuola giudiziaria italiana, la sottile linea che passa tra un premier spaventato dalla divulgazione di intercettazioni e racconti che possono farlo passare per un puttaniere che cede alle richieste di chi può screditarlo e quella di un uomo incriminato di sfruttamento della prostituzione che ricatta il presidente del Consiglio per ottenere soldi e aiuto, viene sempre - e a prescindere da ogni riscontro - risolta dalla magistratura a danno del primo e vantaggio del secondo. A sostegno del teorema, un’accurata scelta tra le centomila intercettazioni telefoniche effettuate sulla vicenda, che prevede a fronte di migliaia di conversazioni in cui non si ravvisa ombra di reato la selezione di quelle poche  che lasciano adito a dubbi nonché  la  reinterpretazione in chiave anti-berlusconiana delle telefonate il cui contenuto, stando alla lettera, scagionerebbe il Cavaliere. E poco importa se, per sostenere il teorema, il giudice è costretto a farcire di contraddizioni le motivazioni della sentenza. Tarantini spiega al telefono a Lavitola che non vuol patteggiare perché vuole «mantenere costante il rapporto con Berlusconi, perché finché c’è il processo, le intercettazioni, le donne, Berlusconi non mi dimentica, ma dopo, come faccio a restare in rapporto con lui…».  E il giudice ne deduce che il ricattato è Giampi… Tarantini sentenzia «in questa situazione più merda c’è meglio è…». E il giudice ne deduce che è Silvio a dirigerne le mosse… Lavitola racconta a Tarantini che Berlusconi era molto preoccupato e il giudice scrive che il comportamento di Giampi nel processo non sarebbe figlio «di una sua libera scelta ma indotto dalle violenze e dalle minacce del premier».  Per sostenere che Berlusconi sia un ricattatore i giudici non esitano a dipingere Tarantini come un cretino. L’uomo che ha fatto in pochi anni milioni di euro, cenava e si ritrovava in barca con D’Alema,  intratteneva rapporti di lavoro e piacere con l’intero establishment del Pd pugliese, brigava per avere dodici appalti da Finmeccanica, viene in maniera spiccia svilito, diventa subito un patetico burattino, «una personalità di evidente debolezza, anche psicologica». Di più. Nella stretta osservanza di un altro neo-principio giuridico di esclusiva scuola tribunalizia italiana, quello del “Silvio non poteva non sapere”,  vengono reinterpretate anche tutte le frasi che Tarantini ha detto al telefono sul fatto se Berlusconi sapesse o meno che le ragazze che lui gli forniva erano escort. Tarantini non dice mai che Silvio sapeva, ma è sufficiente un’intercettazione in cui si dice che il Cavaliere ha fatto un regalo a una ragazza per fare del premier uno sfruttatore di prostitute. Addirittura, vengono ribaltate le testimonianze che a riguardo Tarantini rilascia in cella. Interrogato dai pm, Giampi si autoaccusa di favoreggiamento della prostituzione ed esclude che Berlusconi fosse a conoscenza della natura mercenaria dei rapporti, ma  per i giudici queste parole  non sono che la prova del “disegno criminoso” del Cavaliere. Ma a cosa avrebbe dovuto portare poi questo disegno criminoso teorizzato dal Tribunale del Riesame di Napoli? All’occultamento del segreto di Pulcinella: che Berlusconi va con le escort, una realtà che in Italia ormai conoscono perfino i bambini. Di reati nelle serate organizzate da Giampi non c’è mai stata traccia e l’unico vantaggio che il premier avrebbe potuto ottenere dal tacitare l’imprenditore pugliese sarebbe stato il suo silenzio  su prodezze già raccontate in tv dalle protagoniste e le cui cronache sono apparse su tutti i giornali. Pensare che per ottenerlo Berlusconi possa aver corso il rischio di essere incriminato per induzione alla falsa testimonianza è forse troppo anche per gli anti-Cav più convinti. Più laconiche sono le motivazioni del verdetto quando si tratta di far le pulci ai colleghi. Il Tribunale del Riesame ammette che la Procura di Napoli non aveva alcun diritto di giudicare Tarantini ma non contesta  la minaccia d’accompagnamento coatto - a questo punto priva di ogni fondamento giuridico - che i pm campani hanno mosso al premier. E mentre qualifica come incompetente  la Procura napoletana, entra nel merito di accuse mosse solo da questa, fino quasi a portarne a termine il lavoro: quel ribaltamento della posizione del premier da vittima a indagato che era il fine primo, unico e ultimo dell’inchiesta napoletana. E che nella fantasia giuridica manettara avrebbe dovuto avere il suo  trionfo nell’arresto in flagrante del premier, attratto nella bocca del leone come testimone e parte offesa. Cose da teatrino giudiziario di casa nostra, dove il medesimo fascicolo può viaggiare in un mese da Bari a Napoli, quindi ancora a Bari e poi a Roma. Con una puntata forse a Lecce, dove il procuratore di Bari è accusato di aver rallentato le indagini. Tutto normale, se nel fascicolo ci sono intercettazioni compromettenti per il Cavaliere che è bene vengano agitate nel ventilatore il più diffusamente possibile. di Pietro Senaldi