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Maroni sventola il tricolore Meglio il Colle che Bossi

Il ministro sta con Napolitano ("Non inquiniamo i rapporti") e apre alla riforma della legge elettorale. Tutte mosse non concordate con il Senatùr

Giulio Bucchi
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Referendum, referendum. «Sono rimasto impressionato dal numero di firme raccolte in così poco tempo: anche questo è un segnale forte, sono dell'opinione che vada ascoltato, e che si debba procedere al referendum». Ieri mattina, in un sabato dedicato al dolore leghista per la cancellazione geopolitica della Padania da parte del Quirinale, un allegro Roberto Maroni si è volutamente avvicinato ai cronisti. E ha mitragliato la suddetta dichiarazione sulla necessità dell'abolizione del porcellum; e l'ha fatto proprio mentre l'altro Roberto, Calderoli, autore del porcellum stesso, abiurava fortemente i referendum e si perdeva nei tecnicismi di una generica riforma elettorale in chiave federalista. La mossa di Maroni spiazza tutti. Questo suo odierno impeto referendario che suscita il plauso trasversale del Pd e dell'opposizione («Le sue parole sono una presa d'atto importante che segna una spaccatura profondissima nella Lega e nella maggioranza») ha lo stesso impatto sul centrodestra che ebbe nella Chiesa il manifesto di Lutero sulla Cattedrale di Wittemberg, l'atto di nascita del Protestatesimo. Il ministro dell'Interno ha esternato senza preventivo accordo con Bossi. Non solo. Mentre la voce ufficiale del movimento, il quotidiano la Padania, tuonava contro il presidente della Repubblica al ritmo di secessiùn titolando: «Io esisto e sono padano», Maroni sull'attacco di Napolitano all'anima del suo partito, commentava candidamente: «Sono opinioni note e non mi pare ci siano grandi novità nelle sue parole. Non credo possono inquinare i nostri rapporti». Asse storico - E - parliamoci chiaro - i rapporti Maroni/Napolitano sono più saldi di quelli tra Garibaldi e Vittorio Emanuele a Teano; spesso i due s'incontrano, si scambiano le esperienze da viminalisti di lungo corso, chiaccherano di prefetti e di senso dello Stato. Per Bossi, invece, Napolitano è semplicemente uno che bisogna tenersi buono per necessità di firma. Insomma l'asse è tra Bobo e il Presidente. Ed è perlomeno curioso che quest'asse si consolidi, ora, in un'ottica di progressivo distacco di Maroni dalla politica tenacemente filoberslusconiana di Bossi. Certo, la versione ufficiale dell'uscita di Maroni tra i colonnelli leghisti - nonché  dello stesso ministro -  è che «il ministro degli Interni si è espresso pro referendum per stoppare preventivamente un accordo tra Pdl, Pd e magari Udc che ci scavalchi e ce la metta in quel posto...». Il che, in parte, è vero. Ma è anche vero che ogni uscita di Maroni da settimane è calibrata, filtrata al bulino della strategia e delle reazioni, infilata sempre più spesso nelle costole del Cerchio magico (che comunque già da ieri lascia trapelare l'idea se non un golpe di un golpetto...) e dello stesso Bossi. Il quale Bossi, sempre più in difficoltà, non trova la forza per reagire. La storiella del gioco delle parti tra il Capo e il suo ex delfino si sbriciola proprio contro gli evidenti scivoloni dei bossiani di stretto rito. Che, ad oggi sono, onestamente, parecchi: la “direttiva Caeucescu” che vorrebbe imbavagliare i sindaci leghisti di buon senso Fontana, Tosi, Giancarlo Porta il rottamatore di Macherio; le fuoruscite di frotte di consiglieri e assessori da Bergamo a Cantù; il salvataggio del ministro Romano in odor di camorra; l'insistenza nel caldeggiare la ribattezzata “legge salva Trota”, a consentire l'elezione alla Camera degli over 18, leggi Renzo Bossi. Quest'ultima, tra l'altro è considerata strumento democratico indispensabile per la famiglia Bossi e  «tecnicamente una minchiata»  per la base padana. Uccidere il padre - Sia ben chiaro: Maroni non vuole attaccare frontalmente il Senatùr. Non può uccidere il padre. Ma si batte affinché  i figli (politici) abbiano sempre più peso in famiglia. Non a caso ogni frase di Maroni coincide, soprattutto, coi vari congressi provinciali della Lega   - la scorsa settimana in Valcamonica, poi tocca a Brescia, dopo a Varese, infine si dovrà coinvolgere  il Veneto - in cui la corrente maroniana miete consensi e conquista uomini di territorio. Lo scopo è di ottenere una maggioranza interna che spinga, perlomeno, il Capo ad atteggiamenti più morbidi e meno suicidi. Ecco, il suicidio, questo è il punto. Quando Maroni, sempre ieri afferma: «Le parole di Della Valle (contro la casta, ndr) sono da prendere in grande considerazione: rappresentano un grido di allarme che viene da un imprenditore che tiene alto nel mondo il made in Italy», significa: occhio, signori che la base nostra è incazzatissima e noi non la stiamo ascoltando. E, in effetti, basta accendere Radio Padania: «Da quando Bossi si è legato a Berlusconi la sua dignità è scesa a zero», è il refrain più accorato. «Qui non si accorgono che sta cadendo tutto a pezzi, se si va a votare oggi raggiungiamo a malapena il 4%...»,  ci confida un grosso dirigente. Maroni oggi è visto come il futuro, e lui lo sa bene. Intanto, in questo scollamento progressivo il rischio diventa la balcanizzazione del partito, e lo spettro di un presagio «Non siamo nati democristiani, e non moriremo berlusconiani...» di Francesco Specchia

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