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Folli L'ultima perla di una giustizia incredibile Sciolse la moglie nell'acido, Stato paga il legale

Il boss del clan Cosco risulta "povero": potrà così godere pel patrocinio gratuito

Andrea Tempestini
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È accusato di aver ucciso e sciolto nell'acido l'ex moglie, “colpevole” di aver denunciato un noto clan della 'ndrangheta calabrese. Ma l'avvocato per difendersi nel processo glielo paga lo Stato. L'imputato è Carlo Cosco, ritenuto il mandante dell'omicidio di Lea Garofalo, la collaboratrice di giustizia rapita a Milano nel novembre del 2009 e poi torturata e sciolta in 50 litri di acido in Brianza. Il processo è cominciato lo scorso luglio. E Cosco, che ha chiesto il giudizio immediato, ha ottenuto il gratuito patrocinio: nel dibattimento sarà difeso da Daniele Sussman Steinberg, noto avvocato milanese, scelto dal presunto mafioso ma pagato coi soldi pubblici. Per essere ammessi al gratuito patrocinio, l'ultimo reddito annuo dichiarato non può superare i 10.628,16 euro. Ed è ciò che ha fatto Cosco. «È ovvio che un mafioso non dichiari i soldi guadagnati dai traffici illeciti», dice Ilaria Ramoni, referente per Milano della associazione “Libera”. E infatti, i fratelli Vito e Giuseppe, anch'essi imputati nel processo, pagano di tasca propria due avvocati a testa. Ma nella dichiarazione dei redditi dell'altro fratello, spiega Ramoni, «è scritto che lavorava come buttafuori nelle discoteche e che aveva un reddito esiguo». Non si sa, a questo punto, dove Cosco avrebbe preso i 200mila euro promessi alla figlia Denise, principale accusatrice del padre nel processo, per convincerla a tornare a Milano. «Il problema», prosegue Ilaria Ramoni, «è che nell'accusa è caduta l'aggravante mafiosa, altrimenti l'imputato non avrebbe ottenuto l'avvocato gratuito». In poche parole, eliminato il reato di associazione mafiosa, Carlo Cosco è stato rinviato a giudizio per omicidio premeditato e occultamento di cadavere, ma non per motivazioni legate alle rivelazioni di Lea Garofalo sui traffici del clan Cosco. Bensì, per «ragioni familiari dovute alle continue liti con la moglie». Insomma, un omicidio “normale”. Dalle ricostruzioni delle indagini sulla morte di Lea Garofalo, però, la rete di relazioni della famiglia calabrese risulterebbe tutt'altro che normale. Carlo, Giuseppe e Vito, noti come “i fratelli Cosco”, sarebbero esponenti della omonima cosca di Petilia Policastro, nel crotonese. Quartier generale della famiglia sarebbe stato il palazzo di via Montello 6, di proprietà dell'Ospedale Maggiore ma occupato abusivamente dai Cosco. Qui i tre fratelli avrebbero gestito gli affari legati al settore edilizio, al traffico di droga e ai subaffitti delle case popolari. Affari di cui Lea Garofalo aveva parlato ai magistrati. Una scelta fatta per sè e per il futuro di Denise, anche a costo di andare contro la sua famiglia. E, soprattutto, contro suo marito. Quel Carlo Cosco che ora è difeso da un avvocato a spese dello Stato. di Lidia Baratta

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