Draghi alla Bce, debutto europeo con aiutino alla "sua" Italia

Giulio Bucchi

La prima mossa è stata una sorpresa, e di quelle assai gradite. Mario Draghi ha celebrato il suo arrivo alla guida della Bce tagliando di 25 centesimi di punto tutti i tassi ufficiali di interesse. Scende così all’1,25% quello sulle operazioni di rifinanziamento principali, al 2% quello sulle operazioni di rifinanziamento marginali e allo 0,50% quello sui depositi. Buona notizia per tre ragioni. Primo perché non era attesa e il suo effetto è doppio. Secondo perché le banche in un momento particolare sentono allentare la stretta e liberare un po’ di liquidità. Terzo perché non la nuova liquidità liberata ci sarà più margine per finanziare le imprese a costi più bassi. È una scelta che aiuta l’economia europea a provare ad uscire dal pantano. I primi a felicitarsi sono stati naturalmente i banchieri, e in particolare quelli italiani che da qualche settimana sono sotto attacco (viene contestata loro dal mercato la quantità di titoli di Stato italiani in portafoglio). Vale per tutti, ma in un certo senso la scelta di Draghi fatta in questo momento dà una mano soprattutto all’Italia. Non è contestabile, non può essere considerata un aiuto indebito, ed è stata approvata dall’intero board della Bce, quindi anche dai rappresentanti di Germania e altri paesi. Ma forse è l’unica e ultima mano che l’ex governatore della Banca centrale italiana ha dato e può dare al suo paese di origine. Dicono più di tutto le stringate parole del numero uno Bce in risposta a una domanda sul programma di acquisto di titoli di Stato di paesi in difficoltà (in questo momento praticamente solo l’Italia): «Non siamo forzati da nessuno, siamo indipendenti. È tutto». Come dire che l’aiuto non può andare avanti all’infinito, e anzi è assai più vicino alla fine di quanto non si immagini. Draghi ha poi spiegato che nel direttivo Bce «non ci siamo concentrati specificatamente sulla situazione italiana» e ha aggiunto che «spetta in primo luogo al governo italiano, e a quello degli altri Paesi, fra scendere i rendimenti dei titoli di Stato». Perché questo non potesse sembrare un messaggio troppo duro verso i mercati finanziari in ore in cui anche solo uno spiffero provoca una tempesta, Draghi ha aggiunto: «Oggi gli spread fra i titoli di Stato non riflettono la differenza fra i paesi. I differenziali fra i rendimenti se in un’altra fase erano esageratamente ridotti, oggi sono esagerati al rialzo». Per noi abituati a filtrare ogni notizia internazionale con la lente del “pro o contro Italia” e ancora più del “pro o contro Berlusconi”, il Draghi di ieri è apparso più pro che contro. Mostrando in ogni caso grandissimo equilibrio e spiegando che non può venire da lì la soluzione dei problemi italiani, ma solo dalla politica. Da tutta la politica, visto che il presidente della Bce ha rimesso il dito fra le piaghe della sinistra spiegando che «le riforme del mercato del lavoro sono essenziali e devono focalizzarsi su misure che riducano la rigidità». Il resto tocca a chi guida un paese. Senza sconti: «I governi dell’area dell’euro devono mostrare inflessibile determinazione a onorare pienamente la propria firma sovrana». Per Berlusconi Draghi non può essere considerato evidentemente un nemico. È stato il Cavaliere a nominarlo alla guida della Banca di Italia nel gennaio 2006 su consiglio di Cesare Geronzi. Ed è stato sempre Berlusconi a lanciare la sua candidatura poi risultata vincente alla guida dell’Eurotower. Ma questo rapporto simpatetico non può andare oltre. In qualche modo Draghi ha già provato a togliere le castagne dal fuoco al governo con la lettera Bce di agosto cofirmata con Trichet, ma scritta di suo pugno. È stato uno schermo utilissimo in un momento difficile. Ora in Bce nulla sarà più possibile, tanto più con due italiani che siedono nel consiglio direttivo, visto che Lorenzo Bini Smaghi è ben lontano dal fare la valigia. Il segnale ai mercati tocca al governo italiano, che spesso pare dimenticarsene. Perché tre sono i soggetti con cui parlare: la Bce, che chiede garanzie per i circa 100 miliardi già spesi nell’acquisto di titoli di Stato di Italia e Spagna. Poi il Fondo monetario, la Ue e il G20 che chiedono anche loro garanzie politiche per sapere se vale la pena sostenere l’Italia (e sono quelle contenute nella recente lettera alla Ue di Berlusconi e di Renato Brunetta). Infine ci sono i mercati, che sono i più importanti, visto che decidono lo sballottamento dei rendimenti sui titoli di Stato. A loro bisognerebbe dare un messaggio chiaro sulla riduzione del debito che finora non è arrivato. E su questo le castagne dal fuoco non le può togliere più Draghi. di Franco Bechis