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Il disastro del sindaco Vincenzi Accusa tutti tranne se stessa

Non può guidare Genova: città è infuriata per l'alluvione e lei dice che è colpa delle scuole e de condòmini. Non è all'altezza

Andrea Tempestini
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Oltre i tetti d'ardesia che fanno dello skyline di Genova un enorme guscio di tartaruga -come cantava Gino Paoli-  il primo cittadino Marta Vincenzi non riesce a scorgere, oggi, il proprio futuro. La tragedia di via Fereggiano, col suo carico di morte (madri e bambine schiacciate dal fango e dall'incuria burocratica) e responsabilità, ha trascinato SuperMarta in una palude di kryptonite. La signora c'è dentro fino al collo, compresi i tailleur satinati alla Hillary Clinton e la vanitosa zazzera bianca che ricorda una Maga Magò senza più bacchetta magica. Da quando dal Fereggiano è emersa, limacciosa, l'ordinanza del 23 ottobre 2008 in cui lo stesso sindaco avvertiva i cittadini del pericolo ma scaricava la responsabilità sui condomini, be', perfino il partito le ha tolto il saluto. E il suo nemico interno, Claudio Burlando (che pure è corresponsabile della viabilità idrologica), cova le Primarie  per opporle la senatrice Pd Roberta Pinotti, pensando che, data l'ultima tendenza alla cappella fragorosa, di Marta si farà strame. Marta Vincenzi, classe '47 ex insegnante di storia, ex presidente, ex Presidente di Provincia, ex parlamentare si vanta d'esser figlia d'operaio e nipote di ferroviere licenziato nello sciopero  del '22; e, ovviamente, d'abitare nel quartiere popolare di Rivarolo. Si vanta, dal '74, d'esser stata comunista da Politburo nell'accezione leninista del termine; ma si vanta pure da diessina del Correntone che era, d'esser sostenitrice democratica nel senso veltroniano della parola. Marta si vanta d'avere carattere e fisico di tungsteno che è metallo di transizione, duro e pesante. SENZA LACRIME In effetti, l'unica volta che l'hanno vista piangere è proprio in questi giorni, mentre s'accollava sulla coscienza «il ricordo delle vittime». Anche se gli stessi compagni le ricordano che, al confronto, nelle piene devastanti del Gange, Sonia Gandhi stava con le gambe nell'acqua e di asciutto aveva solo gli occhi. Marta ha molte facce. Se sulle reti nazionali di maggior ascolto intona laceranti mea culpa, su quelle locali quella stessa colpa tende a scaricarla sui concittadini. Sostiene Marta, tono da maestrina alle tv locali, che la gente è «incapace di badare a stessa»; che « meno male che gli istituti erano aperti così i familiari non hanno aggiunto caos al caos»; che lei, in fondo, aveva mandato email -fuori tempo massimo-ai presidi per trattenere i ragazzini nelle scuole; che «se c'è allerta 2 vuol dire che se abiti nei piani bassi devi metterti in grado di salire ai piani alti; vuol dire che non devi andare in strada...». Peccato che i concittadini le tv locali le guardino. E si incavolino, perfino. D'altronde, non è la prima volta che Marta fa incazzare i genovesi. E non sarà mica l'ultima volta ad essere accusata di superbia, specie nel paragone coi due mandati del predecessore Giuseppe Pericu, uno che per la città aveva l'allure di Tony Blair. Di Marta sono molte le cose che turbano. Ci sono, per esempio, le promesse e i proclami in nome della “discontinuità” spinti sempre più sulla “governance allargata”, sul “bilancio partecipato”, sulla “Sanità amica, sul lavoro amico, sulla città amica”: concetti vaporosi che nessuno ha mai ben capito, ma che in campagna elettorale fanno un figurone.   Ci sono gli imbarazzi. C'è, nel maggio 2008, l' inchiesta giudiziaria per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione che ne coinvolse la giunta e portò all'arresto del Portavoce insieme a due ex consiglieri comunali. Prima, nel '99, c'è quella vendita che Marta, da presidente della Provincia di Genova, fece delle quote dell'autostrada Milano-Serravalle al gruppo di Marcellino Gavio. E, guarda caso, nello stesso periodo, il marito della presidentessa, l'ingegner Bruno Marchese, ottenne appalti proprio da una società del gruppo Gavio. C'è quella forma di laicismo intemperante («sono laica come la Bresso, iscritta all'Associazione Luca Coscioni e sostenitrice della separazione stato-chiesa», confidò al Corriere della Sera) che la spinse a consentire all'Unione atei agnostici di scrivere sui bus pubblici «La cattiva notizia è che Dio non esiste, quella buona è che non ne hai bisogno»; il che sarebbe legittimo, se il tragitto di quei bus non avesse compreso il passaggio sotto le finestre del cardinal Bagnasco che s'alterò parecchio. Per non dire della famosa moschea distesa su oltre cinquemila metri quadrati di terreno con un minareto oramai leggendario, pronto a svettare sulla Lanterna grazie a un accordo fantasma  firmato con la Fondazione Islamica Genova. Che neppure esiste. La Lega ne bloccò il progetto, ma questo affiora sempre, cocciutamente, dall'agenda del sindaco.  COME SANTORO Ad urtare i genovesi ci sono tante altre piccole cose. Il fatto di aver lasciato nel 2007 il Parlamento Europeo -come Michele Santoro- dove era stata eletta tre anni prima per la lista di Uniti nell'Ulivo nella circoscrizione nord-ovest: 149. 000 preferenze buttate a mare per la cadrega di sindaco, dopo sofferte primarie. Progetto che era il suo personaledream of live(già perchè Marta - un vezzo- ama farcire i suoi discorsi e i suoi programmi con espressioni inglesi «che dai caruggi non capiscono...»). Il bello è che Marta cominciò a farsi pubblicità da Bruxelles inviando lettere ai giornali e tv per proporsi come candidata prima di esser proposta, all'insegna dell'eterno slogan, ambizioso per qui orbitava nell'orbita post-togliattiana: « Io sono la discontinuità». Oggi che tenderebbe ad essere cancellata dalla vita politica, risuona una sua frase: «Non si sa perché, ma l'aggettivo “ambizioso” diventa subito un difetto se attribuito a una donna». Avrebbe ragione, se non fosse che nel suo caso l'aggettivo non è “ambizioso”. É “protervo”... di Francesco Specchia

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