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Il Pd preferisce SuperMario: attacco alla sedia di Bersani

L'ala liberal dei democratici attacca la linea economica di Fassina. Ichino a Belpietro: "Posizioni inconciliabili"

Giulio Bucchi
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L'esperienza del governo Monti è destinata a mutare tutto. Anche nel Partito democratico. Cambia la linea, cambieranno le alleanze. E il primo a farne le spese sarà Pier Luigi Bersani, garante di uno schieramento (Pd-Sel-Idv) e di una linea che sono destinate a saltare. O almeno a essere ampiamente riviste. Il sottotesto della polemica ieri scoppiata nel Pd attorno al responsabile economico del partito, Stefano Fassina, è questo. Il passo successivo sarà la richiesta di un congresso. Da celebrare l'anno prossimo. Per risolvere quella che, off the records, in tanti definiscono «un'anomalia»: la linea del partito è diventata quella della minoranza. Anche se gli organismi (e il vertice) sono rimasti gli stessi. Ichino a Belpietro: "Io e Fassina inconciliabili"  Il casus belli scoppia in mattinata, quando un gruppo di parlamentari dell'area liberal chiede le dimissioni di Fassina, vicino alla Cgil, anzi alla Fiom, sui temi del mercato del lavoro e delle pensioni, contrarissimo alla famosa lettera della Bce e l'altro giorno protagonista di un attacco contro il commissario europeo Olli Rehn, proprio alla vigilia della missione di Mario Monti a Bruxelles. Può, chiedono i liberal, essere lui il rappresentante della politica economica del partito quando, da una settimana in qua, il Pd è il il principale sostenitore del governo che intende dare attuazione esattamente alla lettera della Bce, annessi e connessi?  Posto il fatto che le sue posizioni «sono pienamente legittime, non è comprensibile che esse siano espresse dal responsabile economico del Pd ed appaiano in netta dissonanza rispetto alle linee di responsabilità e di rigore assunte giustamente dal segretario Bersani». Firmato Enzo Bianco, Ludina Barzini, Andrea Marcucci, Luigi De Sena e Pietro Ichino, anche se poi il giuslavorista ha smentito di aver sottoscritto questa nota. Bersani ha subito difeso Fassina: «Non l'ho proprio capita, il Pd ha idee chiare sull'economia e ha una linea approvata da tutti gli organi del partito. Fassina si rifa' a quella». Nell'entourage del segretario scatta la levata di scudi: «Il 99% del Pd la pensa come Fassina. E comunque la linea è quella». Si fa notare che il responsabile economico è un «bocconiano che ha lavorato all'Fmi». Insomma ha le carte in regola da tutti i punti di vista. Di lì in poi un po' tutto il partito lo difende: Franco Marini, Cesare Damiano, i franceschiniani Marina Sereni e Pier Paolo Baretta, Marco Follini, persino i veltroniani Walter Verini, Vinicio Peluffo e Andrea Martella, per quanto ricordino che se è sbagliato chiedere le dimissioni di Fassina lo è stato anche, nei giorni scorsi, «esprimere posizioni intolleranti» a proposito della possibilità che Ichino potesse entrare nel governo. Prende le distanze dalla richiesta di dimissioni, Walter Veltroni: «Il paese ha ben altri problemi oggi». Il polverone finisce con Fassina che promette di regalare ai liberal un abbonamento al Financial Times per aggiornarsi sulle posizioni «non ideologiche della cultura liberale». E Bianco che ricambia donandogli «un corso di 12 lezioni per rinfrescare la lingua inglese». Pace fatta? Il problema, come ammette Ignazio Marino, «esiste». E riguarda, più che Fassina, la strada che il Pd ha davanti. Così come la posta in gioco non è l'incarico di responsabile economico, ma la guida del partito. Paolo Gentiloni la spiegava così, prima che esplodesse la polemica:  «Meno di un anno fa, al Lingotto, abbiamo detto alcune cose. Allora fummo criticati su tutto. Persino sulla patrimoniale. Ora quelle proposte, dal mercato del lavoro alla contrattazione aziendale, sono la linea del governo Monti che tutto il partito, unitariamente, sostiene. E questo è anche un merito di Bersani. Ma è chiaro che i nodi arriveranno al pettine». Arriveranno in Parlamento, quando il Pd dovrà dire “sì” o “no” a provvedimenti che cambieranno la disciplina di licenziamenti o quella sulle pensioni. Ma arriveranno anche l'anno prossimo quando, per quanto ora nessuno osi dirlo, la minoranza chiederà il congresso. Lo statuto prevede che si celebri entro il 2013. Ma la situazione è a tal punto cambiata che persino tra i bersaniani si mette in conto questa possibilità. L'attuale segretario del Pd era il candidato perfetto dello schieramento Vasto. Ma l'esperienza del governo Monti ha cambiato scenari e alleanze. E con questi la premiership di Bersani. Perché, allora, aspettare di essere a ridosso delle elezioni politiche per affrontare un cambiamento che è già nei fatti? Del resto, come si nota a microfoni spenti, «è un'anomalia che la linea del partito sia quella della minoranza». O, come dice un altro dirigente di Modem, che «chi ha ragione, non comanda».    Per ora, però, la battaglia della minoranza si attesta sulla “linea”. «C'è un problema di chiarezza politica». Quale è la posizione del Pd? Quella dei documenti fin qui votati, dunque quella di Fassina, o quella del governo Monti e del Lingotto, come probabilmente accadrà? Ed è un confronto destinato a ricadere sulla leadership del partito, come ieri scriveva la Velina Rossa: «Oggi si sono aperte ufficialmente le danze per sostituire Bersani». Il congresso è cominciato. E non mancheranno le sorprese. Bisognerà vedere, per esempio, se Veltroni deciderà di esporsi in prima persona. Se sosterrà Matteo Renzi o un altro. E cosa farà Nicola Zingaretti. Le formazioni sono in fieri. Ma di sicuro la partita si giocherà. Ben prima del 2013. di Elisa Calessi

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