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Fassina, l'uomo che lo dimostra: la sinistra non può governare

Pd allo sbaraglio. La richiesta di dimissioni del Responsabile economico è l'antipasto della sfida fratricida: liberal vs radicali

Andrea Tempestini
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Alla fine i nodi arrivano al pettine e siccome i nodi riguardano quasi solo temi economici, ecco che in casa Pd si scatena  il finimondo. L'ala liberal dei Democratici vorrebbe la testa di Stefano Fassina, responsabile economico del partito. Il quale però viene difeso dal segretario Bersani. Dunque viene da domandarsi: è Fassina che non va bene o è Bersani? La domanda ovviamente si porta con sé il dilemma di fondo di questo partito, nato sulla scia di un ex partito comunista mai evoluto in forza socialdemocratica e sull'entusiasmo di un progetto politico – l'Ulivo – capace in qualche modo di vincere le elezioni ma incapace di governare il Paese per le troppe anime che lo componevano.   Questo gap, nel centrosinistra, non è mai stato risolto tant'è che la formula del suo primo segretario Walter Veltroni – il «ma anche» – è ancor oggi un valido paradigma. Nel partito Democratico convivono tante anime, ma nessuna dominante, anche perché qualcuna elide l'altra. Le tesi economiche di Fassina poco si amalgamano con le tesi di Morando, così come le idee di Ichino sul lavoro sono un pugno allo stomaco di quella parte di partito più sensibile ai legami con la Cgil. Di esempi così se ne possono fare diversi: dal tema della fiscalità a quello sui modelli di sviluppo. Perché ciò accade? Perché in Italia il socialismo riformista è scomparso o si è accucciato accanto a due grandi partiti, il Pd e il Pdl, con la speranza di pilotare qualche riforma. Così invece non è stato: a destra quelle tesi hanno bloccato i liberali, a sinistra sono state soffocate dalla paura di regalare alla sinistra (ieri di Bertinotti, oggi di Vendola) porzioni di elettorato. Questo salto di maturità non lo compì ieri Veltroni né lo sta compiendo Bersani oggi. L'equivoco di dover appoggiare un governo di banchieri e di professori mette a nudo le debolezze strutturali del centrosinistra intero, ne rivela le incompiutezze di una lunga stagione politica consumata più a marcar stretto Berlusconi che a riflettere su nuovi modelli di crescita. La ribellione contro Fassina è la ribellione contro se stessi, contro l'idea stessa di centrosinistra. E il Bersani che lo difende è lo stesso Bersani che aveva provato a convincere i distretti del nordest nei panni di ministro. Non ci riuscì perché il compromesso che egli portava allora era un compromesso giudicato vecchio o inadeguato dagli imprenditori. E se era vecchio dieci anni fa, a maggior ragione è vecchio adesso. L'emergenza di superare il berlusconismo, dicevo, obbliga il Pd a diventare grande di botto, a misurarsi con una sinistra che in Europa ha superato persino la socialdemocrazia e si sta inventando un'altra “terza via” (dopo quella blairiana) smarcata da alleanze radicali. Giuste o sbagliate che siano le posizioni dei partiti di sinistra quanto meno hanno il pregio di essere chiare. E proprio perché sono chiare che non si capisce come possano amalgamarsi con il Pd finito l'appoggio al governo Monti-Passera. Lo scollamento tra Fassina e i liberal anticipa il cortocircuito che avverrà nel centrosinistra nel momento in cui dovranno essere definite le nuove alleanze da qui a un anno. Ecco, dopo aver votato la cura Monti, i riformisti del Pd non potranno più prendersela con Fassina (al quale va riconosciuta una assoluta coerenza programmatica) ma dovranno bussare direttamente alla porta del segretario e domandare: caro Bersani, adesso che facciamo? Di là ci sono i centristi e pure i compagni, con chi andiamo? L'unica risposta che non potrà dare Bersani è quella finora fallimentare: andiamo con tutti. Il perché mi sembra fin troppo ovvio. Lo sconquasso economico porterà i partiti a riappropriarsi di una piattaforma che non ammette ambiguità; chi a sinistra contesta la «dittatura della finanza» che accordo potrà mai trovare con un disegno centrista che ha già strizzato l'occhio a Corrado Passera? L'alibi di Berlusconi ormai è tramontato, anche per la sinistra è arrivato il tempo di cambiare lo scenario. Se non addirittura cambiare completamente se stessa. Ps. In questo senso la riforma della legge elettorale potrebbe rivelare molte cose oggi oscure... di Gianluigi Paragone

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