Il servizio pubblico della Rai? Gigi D'Alessio e Montalbano

Andrea Tempestini

Il servizio pubblico -in Rai- è un ircocervo, un’utopia fastidiosa, un animale da bestiario medievale. Tutti ne parlano e nessuno sa bene cosa sia. Sennò non si spiegherebbe come, tra i programmi pagati dal canone, cioè tra i generi tv compresi nel mitico “contratto di servizio” tra Viale Mazzini e lo Stato spicchino titoli come Gigi D’Alessio tu vuò fa’ l’americano, il Concerto 1° maggio, tutte le gare di equitazione, le estrazioni del Lotto o I fatti vostri varietà dall’inconfondibile timbro di Michele Guardì comprensivo di Speciali Capodanno e di tutti gli oroscopi di Paolo Fox. È un elenco interessante, quasi picaresco, quello scovato da Giorgio Scorsone laureando di Giorgio Simonelli, volto di “Tv Talk” e docente alla facoltà di  Linguaggi dei Media della Cattolica e pubblicato -nel silenzio dei più - alla manifestazione “Immaginario 2.0” di Perugia. Scorsone ha analizzato a fondo il tomo stile “Guerra e pace” del contratto di servizio. Leggi la campagna di Libero: "Aboliamo il canone Rai. Ecco come si può fare" E all’ art 1 com 2 per il triennio 2010-2012, si legge la definizione del servizio pubblico: «La missione di servizio pubblico, più in particolare, consiste nel garantire all’universalità dell’utenza un’ampia gamma di programmazione e un’offerta di trasmissioni equilibrate e varie, di tutti i generi, al fine di soddisfare, con riferimento al contesto nazionale ed europeo, le esigenze democratiche, culturali e sociali della collettività, di assicurare qualità dell’informazione, pluralismo, inclusa la diversità culturale e linguistica intesa nel quadro della più ampia identità nazionale italiana e comunque ribadendo il valore indiscutibile della coesione nazionale». SEI CATEGORIE Parole fulgide. Che lasciano, però, ampli margini interpretativi. Funziona così: la Rai per ottenere i soldi del canone stila una lista dei programmi che in misura  secondo sei categorie: “Informazione e approfondimento”; “Programmi di servizio”; “Programmi e rubriche di promozione culturale”; “Informazione e programmi sportivi”; “Programmi per minori”; “Produzioni audiovisive italiane ed europee” assicurandone la presenza in ogni momento della giornata, su almeno una delle tre reti generaliste. Lo Stato sgancia i soldi del canone, e la Rai ha l’obbligo di comunicare alle autorità, ma anche agli abbonati tramite il suo sito Internet, «una dettagliata informativa sul volume dell’offerta». E lo fa, per carità. Solo che lo fa in modo quasi occulto, in fondo al sito sotto la dicitura “corporate” e “governance”, in una jungla di link in cui perfino gli addetti ai lavori faticano ad avventurarsi. E lì saltano fuori le perle, e i margini intrepretativi di cui sopra. Dicesi servizio pubblico Un medico in famiglia; ma pure Ho sposato uno sbirro,  William e Kate una favola moderna, tutte le fiction europee in virtù di accordi Cee e nessun telefilm americano (anche se è servizio pubblico l’anteprima dello stesso telefilm, Blue Bloods, Hawaii Five-0, Ncis). Sono servizio pubblico il floppone di Vittorio Sgarbi (solo per lui 1 milione di euro) e La partita del cuore, Easy Driver, il  Premio Barocco e tutte le manifestazioni estive che odorano di salsedine e marketta. È servizio pubblico il Giro d’Italia e Una voce per Padre Pio, Un giorno in pretura e Che tempo che fa, il Derby dei campioni del cuore, Il caimano e il commissario Rex, Dumbo e Sereno variabile, Santoro, Vespa, il Festival di Sanremo, Fiorello. È servizio pubblico Un posto al sole. Quest’ultimo titolo rende l’idea plastica del trattamento che hanno molti programmi Rai pagati dal cittadino senza che il cittadino lo sappia. MONITORARE GENTE... Tra l’altro la tv di Stato avrebbe  l’obbligo di periodiche ricerche di mercato sulla customer sodisfaction, sulla reazione del pubblico ai prodotti nella valutazione di un punteggio da 0 a 100. E il monitoraggio, ogni sei mesi, viene eseguito con zelo, per carità. Solo che i risultati vengono come al solito infilati, sepolti in un pertugio del sito www.rai.it. Chissà cosa accadrebbe se, per dire, la gente sapesse che Radio Londra, oltre che di ascolti rasoterra gode di un indice di gradimento assai al di sotto della sufficienza (42%). Forse non accadrebbe nulla. Commenta l’autorevole prof Giorgio Simonelli: «Non si discute la scaletta dei programmi di servizio pubblico della Rai; si discute, chi la fa. Io dico: due reti di servizio pubblico dimagrite -una generalista e l’altra  decentrata- l’Italia le deve avere sul modello francese di France 2 e France 3 (riforma attuata da Sarkozy, uno non di sinistra). Che poi la faccia la Rai è più logico, ma si può discuterne...». Ecco, si può discuterne. Per noi che nell’era dell’information overlaod -del sovraccarico d’informazioni- , degli ascolti parcellizzati tra La7, Sky, le all-news Mediaset, del digitale selvaggio traccheggiamo; per noi che siamo ancora lì a pensare alla Bbc di Jacob negli anni ’50 o al maestro Manzi la domanda è: se il servizio pubblico non è (soltanto) più la Rai, perchè diavolo dovremmo pagare il canone?... di Francesco Specchia