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Ecco la guerra dei monsignori Spioni e cimici in Vaticano

Sacri tribunali. Intercettazioni, telefonate intercettate, lettere private come prove: nel processo canonico gli stessi metodi dei pm

Andrea Tempestini
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Per più di quattro mesi in Vaticano si è svolto in grandissimo segreto una sorta di maxi-processo canonico che aveva al centro proprio le accuse e gli accusati citati nelle clamorose lettere di monsignor Carlo Maria Viganò inviate al Papa e al cardinale Tarcisio Bertone fra il mese di marzo e quello di maggio 2011. Come rivelato da Gianluigi Nuzzi su Libero e su La7 nel programma Gli intoccabili, in quelle missive l'allora segretario generale del Governatorato del Vaticano riferiva i numerosi bastoni che gli erano stati messi fra le ruote nell'opera di risanamento del bilancio del piccolo Stato. C'erano episodi di malversazioni, nomi citati di detrattori, segnalazioni sulle intromissioni poco limpide di alcuni personaggi che avevano libero accesso alla Santa Sede pur non avendone titolo ufficiale. Tutte le accuse, e addirittura molto di più, sono state al centro del maxi processo canonico. Monsignori, cardinali, sacerdoti, vescovi e semplici dipendenti del Vaticano sono sfilati nelle aule dei sacri tribunali per testimoniare in un modo o nell'altro su capi di accusa da fare tremare la pelle: certo corruzione e malversazione, ma perfino pederastìa e appartenenza alla massoneria. MATERIALE ENORME L'accusa è stata verificata nei confronti di gran parte dei nomi citati nelle lettere riservate da monsignor Viganò, poi l'indagine si è estesa. La sorpresa - anche degli stessi imputati- è stata nella notevole produzione del materiale processuale, che nulla aveva da invidiare a quello che appare nelle aule di giustizia e nei faldoni dei pubblici ministeri in Italia. C'erano trascrizioni di intercettazioni ambientali (effettuate tramite microspie) e telefoniche, produzione di corrispondenza a mano e perfino elettronica ordinaria e riservata. Si è quindi scoperto che, al di là delle mura leonine, la Gendarmeria guidata  dall'ispettore generale Domenico Giani è in grado di effettuare indagini assai simili a quelle dei corpi di polizia giudiziaria dello Stato italiano. Più di un monsignore ha appreso solo in aula che le sue conversazioni private erano state intercettate, così come tutte le comunicazioni elettroniche o amanuensi. C'erano i brogliacci di alcune telefonate, i testi delle e-mail inviate, copia di qualche lettera non protocollata. D'altra parte Giani, che nasce poliziotto italiano, ha lavorato praticamente in ogni corpo prima di entrare in Vaticano: con la guardia di Finanza, con la polizia giudiziaria al ministero di Giustizia, perfino con il Sisde, il servizio segreto civile di cui è stato a lungo collaboratore.  Oltre Tevere ha assunto superpoteri che in Italia sarebbero inimmaginabili nelle mani di una sola persona, modernizzando la gendarmeria, aumentandone la dotazione tecnologica e la formazione, facendola entrare in Interpol. I SUPERPOTERI I suoi poteri eccezionali derivano anche dalla concentrazione nelle sue mani di compiti di sicurezza, di polizia giudiziaria, di antiterrorismo e perfino di istruttoria processuale. È stato lo stesso Giani a svolgere il compito di pubblico ministero nel maxi-processo canonico sulle denunce di monsignor Viganò. Con tutto quel materiale e capi di accusa  così gravi, bisogna dire però che il processo non è stato un successo per l'accusa: tutti gli indiziati sono stati prosciolti dai sospetti e il materiale probatorio nei loro confronti è stato giudicato del tutto inconsistente. Si era dunque prestata troppa attenzione al pettegolezzo che in Curia procede a velocità della luce e ad amplissimo spettro, senza trovare documentazione che riuscisse a comprovare le accuse. Anche i riferimenti più puntuali contenuti nella seconda lettera di monsignor Viganò al cardinale Bertone non hanno trovato il necessario riscontro documentale. Ogni testimone sfilato o negava tutto o riferiva di avere appreso quel che aveva confidato da confidenza di terzi. È anche per questo che alla fine del processo monsignor Viganò è stato sollevato dall'incarico che aveva in Governatorato e promosso (la sua buona fede è stata comunque riconosciuta e i bastoni fra le ruote delle amministrazione erano reali) alla nunziatura apostolica di Washington. CACCIA AI COLPEVOLI Resta da capire perché dopo molti mesi quelle due lettere sono uscite dalle mura leonine, e quali mani le hanno accompagnate. È naturalmente questo - più dello scandalo già conosciuto da tempo ed esaminato nel maxiprocesso - ad agitare più i sonni oltre Tevere. Una certezza ormai è stata raggiunta: nelle missive prodotte dalla stampa appare il timbro di ricezione degli uffici della segreteria di Stato. Non può quindi essere stato il mittente (monsignor Viganò) a divulgarle. Devono essere uscite dalla segreteria di Stato. Ovviamente non possono essere stati i collaboratori più fedeli al cardinale Bertone a farlo. I sospetti ricadono sul personale di segreteria più legato alle precedenti gestioni, ed essenzialmente a quella del cardinale Angelo Sodano. Qualche indizio sembra che sia stato raccolto, ed è ormai iniziata la caccia al colpevole. di Chris Bonface

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