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La malattia non va disprezzata Il delitto non è la soluzione

Il patto sull'eutanasia delle gemelle Kessler. Il dibattito. Per Andrea Morigi l'omicidio non può essere considerato l'aiuto adeguato a un sofferente

Giulio Bucchi
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Le gemelle Kessler hanno un patto d'acciaio: se una dovesse finire in coma, l'altra è pronta a staccare la spina. Alice ed Ellen sono pronte ad aiutarsi a morire. Un'intesa che fa discutere e che innescato un acceso dibattito sull'eutanasia. Secondo Filippo Facci, in un Paese davvero civile lo Stato dovrebbe aiutarle. Per Andrea Morigi, al contrario, la malattia non va disprezzata e il delitto non è la soluzione. Da-da-umpa e poi, all'unisono, le gemelle Kessler si faranno fuori a vicenda. Come un tempo le due soubrette sgambettavano insieme sulle scene, così si dicono disposte a uscirne. Se lo sono promesse, stringendo un patto per l'eutanasia. Come se non si ritenessero degne di continuare a esistere, se anche una sola di loro dovesse cadere in stato vegetativo. Come se avere una sorella che ti assiste e ti cura fino al termine naturale della vita non fosse un privilegio riservato a pochi. Un privilegio per chi accudisce e per chi è accudito, beninteso. Invece no, appena zoppicherai, ti farò crollare definitivamente. «A chi può cadere, dà pure la spinta», suggerisce Friedrich Nietzsche in Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno. Magari non è fra gli aforismi preferiti delle due attempate showgirl tedesche. Ora si direbbe: «A chi è in coma, stacca pure la spina». In questa formulazione, il vitalismo è divenuto una cultura diffusa e, a mano a mano che da teoria si fa prassi, sta imprimendo al cammino della civiltà una spinta a ritroso, fino al tempo in cui la debolezza era considerata un motivo di disprezzo, per sé e per gli altri. Senza pensare che se le terapie nel frattempo hanno potuto progredire è proprio grazie all'esercizio della carità nei confronti dei più deboli. È comprensibile che alle signorine Kessler non vada a genio l'idea di prestarsi come cavie umane per esperimenti di accanimento terapeutico. E sarebbe giusto che nessuno  imponesse loro trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita. Peggio ancora sarebbe se un omicidio fosse considerato l'aiuto adeguato a un sofferente. Soprattutto se non fosse più nelle condizioni di esprimere la propria volontà e si dovesse affidare a qualcuno, un legislatore, un giudice, un medico o un parente, il diritto di stabilire se una vita sia meritevole o no d'essere vissuta. Quando invece l'unico sostegno possibile, in certi casi, consiste nell'accompagnare verso la morte senza precipitarsi nella disperazione. di Andrea Morigi

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