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Fini e la casa di Montecarlo: ecco come l'ha fatta franca

I pm hanno riconosciuto che la vendita dell'appartamento al cognato è stato un danno, ma non una truffa

Nicoletta Orlandi Posti
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Il danno, hanno riconosciuto i magistrati, c'è stato. La truffa, però, no. E questo perché, ha spiegato il gip romano Carlo Figliolia nel procedimento con il quale il 14 marzo 2011 ha archiviato la posizione di Gianfranco Fini e dell'ex segretario amministrativo di An, Francesco Pontone, in relazione alla vendita dell'appartamento di Montecarlo, «per la natura stessa dell'ente (l'ex partito An), associazione non riconosciuta (partito politico) e per le prerogative di coloro che hanno agito, non si è verificata quella falsa rappresentazione della realtà» necessaria «per l'integrazione del reato ipotizzato». La truffa, appunto.Ma se non c'è il reato, le nubi intorno a quella vicenda che ha tenuto banco per sette mesi non si sono mai diradate. Nubi che a buon titolo popolano quella zona grigia nella quale da sempre operano i partiti. Sono gli stessi magistrati ai quali si erano rivolti due ex militanti di An per fare luce sulla contestata vendita di quell'appartamento al primo piano del numero 14 di Boulevard Princesse Charlotte, nel Principato di Monaco, a denunciarlo. Il 26 ottobre 2010 già il capo della procura di Roma, Giovanni Ferrara, e il suo aggiunto, Pierfilippo Laviani, avevano chiesto l'archiviazione del fascicolo aperto dopo l'esposto presentato dalla Destra di Francesco Storace. Poiché la transazione oggetto del ricorso riguardava un'«associazione non riconosciuta», ovvero il partito An, «non era neanche ipotizzabile l'ipotesi delittuosa prevista dell'articolo 2634 del codice civile, prevista unicamente per gli amministratori di società». L'articolo in questione prevede, per la cronaca, il reato di infedeltà patrimoniale, punibile con una pena da un minimo di sei mesi a un massimo di tre anni. Ma se per le società commerciali amministratore e patrimonio sono due entità separate, per le associazioni - e quindi i partiti - non è così. Insomma, chi amministra o gestisce i beni di un'associazione è responsabile del patrimonio come se fosse suo. Ragion per cui, vendendo quella casa ad una società off shore ad un prezzo tre volte inferiore il reale valore di mercato (300mila euro invece degli 819mila certificati dalla camera immobiliare monegasca) e lasciandoci per giunta dentro il “cognato” dell'attuale presidente della Camera, Giancarlo Tulliani, è come se Fini e Pontone avessero fatto male a lorostessi. Fatti loro. Ciò non toglie, ha osservato il gip sposando la tesi dei pm, che l'immobile sia «stato ceduto a un prezzo inferiore a quello di mercato». Lungo la rotta che li ha condotti verso l'archiviazione, i magistrati di piazzale Clodio hanno trovato molti scogli cui appigliarsi. Il più significativo è stata sicuramente la legge numero 51 del 23 febbraio 2006, quella che stabiliva «l'esonero degli amministratori dei partiti e movimenti politici dalla responsabilità per le obbligazioni contratte in nome e per conto di tali organizzazioni, salvo che abbiano agito con dolo o colpa grave». Poche righe che però, insieme alla natura di associazione non riconosciuta riservata ai partiti, hanno giocato un ruolo decisivo nell'orientare le scelte delle toghe romane sull'affaire monegasco. La vicenda, venuta alla ribalta nell'estate del 2010, ha tenuto sotto scacco Fini per sette mesi. Soprattutto dopo la scoperta che in quell'appartamento, donato ad An nel 1999 da una sostenitrice, la contessa Anna Maria Colleoni, viveva il fratello di Elisabetta, la compagna del presidente della Camera. Fu lui che funse da intermediario per la prima vendita, quella da An alla società Printemps Ltd di Santa Lucia (Caraibi). Pochi mesi dopo, però, l'immobile passò ancora di mano, stavolta alla Timara. Società di cui Tulliani, ha rivelato il governo dell'isola, era all'epoca il «beneficial owner». Letteralmente, il «proprietario beneficiario». di Tommaso Montesano

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